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Shhh! Ché el mariachi sta per attaccare il racconto di Alita

Shhh! Ché el mariachi sta per attaccare il racconto di Alita

Va beh, ragazzi, a Peduzzi piace la Rivella, dovete sempre contestualizzare. Leggete, gustate, bravo Peduzzi, poi i conti li fate voi.
— Dalle lettere di San Marco Esposto ai Giulivi.

Anno XXXX

Sono passati più di, boh, parecchi anni da quando la guerra nucleare innescata da un malinteso su Twitter fra Trump, Kim Jong-un e Matteo Salvini ha brasato una buona fetta del pianeta. Contro ogni previsione logica e scientifica, il medioevo post-nucleare che è seguito ha visto imporsi una nuova specie dominante, i gatti. I felis sapiens, come sono stati ribattezzati da qualche sapientologo, ora scorrazzano liberi per il mondo facendo il cazzo che pare a loro: le spiagge sono state trasformate in enormi lettiere e le lussureggianti foreste in tiragraffi.

Eppure, la razza umana è sopravvissuta.

Non tutta, eh. La prima ondata di superstiti alle bombe scelse di infilarsi nel sottosuolo seguendo i ratti, ma era una trappola: una volta raggiunto un punto morto, gli umani sono stati attaccati dagli astuti roditori e divorati in massa.

Gli altri hanno preferito ritirarsi in montagna, inaugurando un regime alimentare basato sul cannibalismo rituale: per l’ennesima volta nella nostra storia, la religione è venuta comoda per gestire il senso di colpa, impedendo alla gente di impazzire. Poi, piano piano, le terre sono tornate fertili, l’emergenza è un filo rientrata e la società si è rimessa più o meno in bolla.

Oggi, gli esseri umani vivono in piccole tribù dotate di qualche piccolo lusso tecnologico residuo, e c’è persino l’elettricità. I laboriosi monaci apeduensi della Chiesa della Luce passano intere giornate chiusi nei loro monasteri a pedalare, per ricaricare delle immense batterie utilizzate sostanzialmente per appicciare televisori e lettori dividdì. La domenica, gli abitanti dei villaggi vicini migrano verso gli edifici sacri per assistere ai racconti del passato, sorseggiando una bevanda ricavata dal caglio del latte.

Ecco, io ne vado pazzo. Non mi riferisco alla Rivella postatomica e nemmeno a tutta la faccenda spirituale. Vado pazzo per le storie, anche se spesso sono simili tra loro, i personaggi cambiano nome o viene ripennellato giusto qualche segmento qua e là. Ma insomma, è anche questo il bello.

Il secondo mese dell’anno, ad esempio, è dedicato al ciclo di Alita, che per metterla in pannocchie, parla di una ragazza meccanica - Alita, appunto, anche se in certe varianti del racconto viene chiamata Gally – ritrovata tra i rifiuti e rimessa in sesto dal dottor Daisuke Ido. Da lì, la nostra eroina affronta tutta una serie di avventure ambientate in un mondo cyberpunk (il futuro immaginato dalla gente del passato) diviso tra una città discarica e la misteriosa Salem, che sembrerebbe una specie di paradiso, o giù di lì.

Ora, di Alita avevo già letto il racconto a fumetti, miniato da tale Yukito Kishiro e conservato nella biblioteca dei monaci, e non è che mi avesse fatto impazzire. Sostanzialmente è una fiaba con i personaggi che vengono fatti a pezzi e poi ricomposti, e tutta una serie di mostri di ferro giganti pazzeschi e cose così. Bello, potente, ma un po’ troppo liscio. Tra l’altro, pare che la versione manga sia quella originale, oltre che quella che va più lunga (fermo restando che è sempre difficile parlare di originalità davanti a questo tipo di storie bla bla bla).

Molto meglio della versione animata tramandata da Hiroshi Fukutomi, comunque, che rielabora il tragico amore tra Alita e Yugo, un ragazzo della città discarica che la caga così-così, visto che ha la fissa di salire su a Salem. Mi pare di capire che questo segmento della fiaba sia quello più popolare e diffuso, visto che è stato ripreso anche da Robert Rodriguez e James Cameron nel loro film del 2019, che verrà rievocato nell’oratorio della chiesa stasera, appena dopo il sacrificio rituale in memoria dei nostri antenati cannibali (pace all’anima loro).

Yugo detto Hugo, io di te non ne posso più.

Ecco, passano gli anni ma la versione di Rodriguez è sempre quella che preferisco. Mi piace persino più di quella variante apocrifa che lo stesso Cameron si era inventato qualche tempo prima, Dark Angel, e più dell’ottimo remake di Axel Braun, Elegant Angel Anita (A XXX Parody), dove sono tutti biotti come nelle storie che sussurrano i monaci di nascosto.

La versione del mariachi fila in equilibrio tra i toni fiabeschi di Kishiro e il mito. Il background e lo svolgimento del tema restano identici, OK, ma c’è un filo più di struttura.

Il Dr. Ido (Dyson, in questo caso) interpretato da Christoph Waltz - quello dei film di Tarantino che mi piacciono e dei moschettieri con i dirigibili - si scrolla dalle spalle ogni sottotesto sentimentale verso la protagonista per abbracciare totalmente la dimensione paterna. Solo che qui non è un mastro Geppetto qualsiasi, ma un uomo scacciato da Salem e spedito a strisciare sulla terra assieme alla compagna Chiren (Jennifer Connelly), personaggio rimediato dall’anime del 1993.

Quella che abbiamo davanti è una rivisitazione del mito di Adamo ed Eva che doppia quello di Lucifero e Lilith. C’è il tema della figlia perduta, che in sé è un po’ stucchevole, sì, ma permette alla Connelly di esprimere il personaggio più complesso e riuscito del film.

La Chiren di Jennifer Connelly è lo stesso personaggio dell'anime, eppure è completamente diverso.

E poi c’è l’Alita di Rosa Salazar, che mi piace un sacco nel suo essere perfettamente a metà tra l’adolescente ingenua che non ricorda nulla del mondo e il personaggio potentissimo che spacca i culi con il Panzer Kunst. Qui, tra l’altro, l’ancestrale tecnica di combattimento torna ad essere il principale veicolo di conoscenza per la ragazza: Alita si evolve e ricorda cose soprattutto attraverso l’azione. Da una parte, il film recupera dal manga tutta una serie di dicotomie apparentemente inflessibili, ma dall’altra si diverte a incresparle giocandosela sul rapporto inevitabile tra corpo e mente. I ricordi e la memoria dei muscoli vivono un legame simbiotico di necessità, più che di rigetto, esattamente come Salem (che simboleggia sia la testa che il senso del divino) ha bisogno della discarica per stare a galla.

I concetti si fanno più fini e spuntano toni di grigio, ma su una cosa l’asse Cameron/Rodriguez non ha dubbi: la potenza dell’ingegneria, sia sul piano esegetico che in termini di cinema. La messa in scena di questo Alita è pazzesca, con la regia che orchestra a meraviglia i combattimenti e le scene d’azione, mentre tutta la faccenda del motion capture non è solo un vezzo stilistico ma, anzi, diventa indispensabile per servire al meglio un personaggio che stacca rispetto al mondo che lo circonda. In fondo, la prometeica ragazza Cyborg è pressoché un unicum e quegli occhioni, oltre a definirne la natura ibrida, raccontano più cose di molte righe di dialogo.

No, sono grandi il giusto.

Poi, laddove non arrivano recitazione e motion capture, ci pensano gli ambienti, i colori e le architetture calde a impastare il discorso (il film è stato girato in Texas ma con la testa in Messico). Certe scenografie paiono tirate fuori di peso dal manga, mentre altre, come la stanza di Alita o la casa di Ido, sono state completamente rivisitate. In generale, il futuro distopico (o utopico, dal punto di vista di chi scrive) di questo film rimane attaccato agli occhi e pure agli occhialetti treddì, eventualmente, con un effetto di quelli che sembra che non ci fai caso, ma ci fai caso.

Problemi? Sì, qualcuno, tipo il rapporto tra durata e ritmo. Alita ha almeno venti minuti di troppo accumulati nella parte centrale, che andrebbero sgrassati.

Poi c’è Yugo, o Hugo come lo chiamano qui. Basta, per amor diddio (e dei nostri avi che si sono sacrificati eccetera eccetera), il suo ciclo narrativo già era stucchevole nel manga, per non dire dell’anime. Qui gira un filo meglio e perlomeno spalleggia il Vector di Mahershala Ali, ma insomma, in generale avrei preferito un film tutto a tema Desty Nova, anche per via di quel finale lì.

È un vero peccato che il mondo sia andato in vacca: Cameron non è nemmeno riuscito a raggiungere il secondo Avatar, figuriamoci scrivere e produrre un sequel di Alita.

Ho guardato Alita presso la Chiesa della Luce: pregate, pentitevi e se occorre divorate i vostri stessi simili. Questo articolo fa parte della liturgia dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

Il poster del film realizzato da Yukito Kishiro.

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