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Quarant’anni di avventure con Charles Cecil

Quarant’anni di avventure con Charles Cecil

Quasi quattro anni dopo l’ultima volta, torno a proporvi una chiacchierata con Charles Cecil, nome storico del videogioco che può vantarsi di aver sviluppato giochi d’avventura fin dai primissimi anni Ottanta e di essere cofondatore di uno studio indipendente nato nei primi anni Novanta e, nonostante qualche periodo difficoltoso, sopravvissuto in quanto tale fino a oggi. Non è che ce ne siano molti altri. Durante il Reboot Develop Blue 2022, abbiamo chiacchierato di Beyond a Steel Sky, di condizioni lavorative, del ritorno di titoli classici del punta e clicca, dell’evoluzione del settore nel corso dei decenni e di svariate altre cose. In questo articolo su IGN Italia ho raccontato l’intervista in forma condensata e discorsiva ma di seguito potete leggerne la trascrizione integrale in italiano.

Buona lettura!

Tre anni fa ci siamo fatti una chiacchierata qui al Reboot e avevi appena annunciato Beyond a Steel Sky. Tre anni dopo, come valuti questa esperienza di tornare su qualcosa che avevi fatto trent’anni prima?

Beh, devo dire che lavorare con Apple è stato fantastico. Poi hanno un po’ cambiato approccio, sono meno “avant garde” in termini di giochi che scelgono di includere nel loro servizio. Ma lavorare con loro è stato fantastico. Quando abbiamo iniziato a parlare, ci hanno subito chiesto che genere di contributo potevano dare per la riuscita del gioco. E quel rapporto con loro ci ha garantito il tempo necessario per lavorare sui prototipi per il gioco. In particolare, sono molto fiero del sistema di hacking, che ci ha permesso di implementare un certo quantitativo di gameplay basato sui sistemi. Mi spiace anzi non aver potuto ampliare ulteriormente la cosa, renderla più centrale nel gioco. In generale, comunque, è stata una bella esperienza e loro hanno dato una grossa mano, anche sul piano economico. Chiaramente, essendo su Apple Arcade, abbiamo dovuto supportare tanto i dispositivi più avanzati, quanto quelli meno potenti. Però sono molto fiero del 76% di Metacritic ottenuto dalla versione PlayStation 5. Insomma, il gioco è stato accolto bene anche su next gen, oltre che sulle piattaforme meno potenti. Personalmente tendo sempre ad essere molto critico riguardo agli elementi che sarebbero potuti venire fuori meglio ma in generale sono orgoglioso del gioco. Con un team piccolo siamo riusciti a sviluppare un gioco con valori da tripla A…

In effetti era piuttosto ambizioso…

Decisamente. Cosa che implica un sacco di duro lavoro nelle fasi finali dello sviluppo. Non crunch, ovviamente, perché quel termine non si può più usare, ma sì, abbiamo fatto tutti qualche ora di straordinario, c’era un bel gruppo, eravamo molto legati e siamo molto orgogliosi di quello che siamo riusciti a produrre.

Beh, per come la vedo io, quando fai un lavoro creativo, devi anche un po’ aspettarti che possano capitare ore di lavoro extra. Il problema, semmai, è quando il crunch diventa sistemico, parte della programmazione...

Guarda, voglio spiegarti il mio punto di vista sulla questione. Ai tempi in cui stavamo sviluppando A sangue freddo, permisi a un programmatore di lavorare per un quantitativo di ore insensato. Aveva dei figli. Aveva una moglie. E fu un errore da parte mia, in quanto manager. Mi sarei dovuto rendere conto che era completamente inaccettabile. E alla fine del progetto se ne andò. Mi ricordo chiaramente, lo reincontrai tre anni dopo e fui felicissimo di vedere che eravamo ancora in buoni rapporti, perché avrebbe avuto tutto il diritto di essere arrabbiato per la mia malagestione.

Ora, Yves Guillemot ha scatenato una grossa polemica quando ha detto che un po’ di “frizione” è necessaria nel funzionamento di uno studio di sviluppo. Personalmente, credo intendesse dire che serve un po’ di pressione e che la pressione è positiva. Siamo passati da una situazione ridicola, di crunch estremo, all’estremo opposto, all’idea che tutti dovrebbero lavorare otto ore e basta, senza eccezioni. Chiaramente, lì in mezzo c’è un equilibrio tramite il quale metti pressione su te stesso, crei coesione nel gruppo e insegui un’ambizione. O comunque io la vedo così.

Beyond a Steel Sky ha dato seguito a un classico del punta e clicca pubblicato da Revolution Software nei primi anni Novanta.

Forse il problema è anche che è facile essere vittime di persone che approfittano della tua passione.

Sì, senza dubbio. Però, per capirci, quando abbiamo fatto un po’ di straordinari lavorando su Beyond a Steel Sky, ho proposto a tutti di lavorare fino alle dieci per tre giorni a settimana. Era totalmente facoltativo, si trattava di straordinari pagati, la cena era a nostro carico… E ripeto, assolutamente facoltativo, senza problemi di sorta. Alla fine, alcuni l’hanno fatto per un giorno, altri per due, quasi mai è capitato che se ne facessero tre. E secondo me una situazione di questo tipo è parte normale dell’accelerazione che devi dare alle cose nella parte finale dello sviluppo di un gioco. Molte persone non sono d’accordo. Ci sta.

Tu hai ripreso in mano Beneath a Steel Sky. Ron Gilbert ha sviluppato un nuovo Monkey Island. I Williams sono tornati. È in sviluppo un prequel di Simon the Sorcerer, tra l’altro sviluppato da uno studio italiano. Che sta succedendo? Cos’è questa resurrezione di classici del punta e clicca? È il fascino delle IP?

Penso di sì. Sai, fra Unity, Unreal… ormai la barriera d’ingresso per sviluppare e pubblicare un gioco si è abbassata molto ed escono tantissimi giochi. E sai, quando eravamo molto più giovani… Io sono nato un po’ prima, ma alle persone nate negli anni Settanta poteva capitare di giocare magari a uno, due, tre giochi all’anno. E ogni gioco era un evento. Questo perché per avere speranza di successo, un gioco doveva arrivare nei negozi, nella grande distribuzione, cosa che era letteralmente limitata dallo spazio sugli scaffali. C’erano dei limiti, che avevano lati positivi e negativi. Ma sicuramente, di negativo c’era questa sorta di limite artificiale che metteva tutto il potere nelle mani di negozianti e distributori, che decidevano cosa esporre, e dei publisher, che decidevano cosa mettere in produzione. Un negoziante non metteva a scaffale nulla che non arrivasse da un publisher. Insomma, il mercato era controllato in maniera molto forte e diretta. La distribuzione digitale ha causato una rivoluzione gigantesca di cui noi abbiamo beneficiato tantissimo. Nel 2009 è stato fantastico poter portare Beneath a Steel Sky su iOS.

Chiaramente, tra le facilitazioni garantite dai motori che ho citato prima e lo spazio teoricamente senza limiti dei negozi digitali, oggi c’è una quantità enorme di giochi. E ci sono pure i servizi su abbonamento! In questo contesto, poter tornare a un nome noto è in qualche modo rassicurante. Ho acquistato immediatamente il nuovo Monkey Island… In un certo senso sai esattamente cosa aspettarti. E in effetti, se devo fare una critica a Return to Monkey Island, è che è fin troppo esattamente quello che ti aspetti. È allo stesso tempo la sua forza e la sua debolezza.

D'altro canto, in una certa misura, se è quello che vogliono i fan...

Certo, certo.

È interessante, da un lato vedi i grossi publisher tornare continuamente sulle IP del passato perché lo ritengono meno rischioso. Se ha funzionato una volta, rifacciamolo. Ma la mia sensazione è che sia l'opposto rispetto all'approccio tuo, di Ron Gilbert e degli altri autori che tornano sulle loro vecchie opere per amore.

Cerchiamo di innovare, questo senza dubbio. A volte ci viene bene, a volte no. Chiaramente, di contro, lavorare su una IP nuova significa non avere costrizioni di sorta.

E infatti proprio di questo volevo chiederti. Ti sei sentito in dovere di fare quello che la gente si aspettava da un seguito di Beneath a Steel Sky o ti sei sentito libero di fare quello che volevi?

Grazie, è una bella domanda. Premesso che il gioco originale risaliva a venticinque anni prima, c’è un certo numero di persone che adora in maniera viscerale quel gioco e che probabilmente avrebbe finito per odiare qualsiasi cosa avessimo scelto di fare. Ma va bene. Ed è anzi incredibilmente lusinghiero che esistano persone così legate a qualcosa che abbiamo fatto.

Il gioco era stato scritto per il sistema operativo MS-DOS. Quando quell’organizzazione meravigliosa che risponde al nome di ScummVM ci ha chiesto il codice sorgente, abbiamo deciso di concederlo in forma gratuita. Perché tanto, nel momento in cui Windows avrebbe smesso di supportare MS-DOS, non saremmo comunque più stati in grado di monetizzare il gioco. Col senno di poi, era un punto di vista un po’ ingenuo, ma fu anche una gran mossa di marketing, dato che milioni di persone hanno giocato a Beneath a Steel Sky solo perché era disponibile gratuitamente. Quindi, avevamo anche un pubblico di milioni di persone che avevano scoperto il gioco da poco e non avevano alle spalle decenni di amore esploso nei loro anni formativi. Questo, secondo me, ci ha garantito un certo grado di libertà. Sicuramente più che con un nuovo Broken Sword, che deve soddisfare le aspettative.

Parecchio tempo prima, Dave Gibbons aveva scritto una storia per un seguito che avrebbe portato Foster in una città nuova, a fare cose nuove. Ma venticinque anni dopo ci siamo detti che il ricordo della città originale era ormai flebile e alla gente sarebbe interessato sapere di più sul rapporto fra Joey e Foster. Vogliono sapere cosa è successo. Per questo abbiamo deciso tornare nella stessa città, una scelta figlia proprio dei tanti anni che erano trascorsi.

È bello, se non poetico, che vent’anni dopo essere stato costretto dal mercato a creare un Broken Sword in 3D, oggi hai potuto decidere di creare un Beneath a Steel Sky in 3D.

Vero! Ma fa parte del nostro desiderio di innovare sempre. Poi c’è il fatto che le avventure hanno incontrato in qualche modo un declino, rispetto all’apice degli anni Novanta, ma allo stesso tempo, se lo consideri in senso ampio, rimane un genere molto importante. Se includi giochi come Return of the Obra Dinn... Her Story… ovviamente i punta e clicca… è un genere molto ampio. Poi, certo, stiamo comunque parlando di una nicchia, se li paragoni agli FPS o ai giochi casual. Ma se lavori bene, puoi creare giochi molto attraenti per chi desidera un’esperienza narrativa interattiva profonda. E puoi attrarre tanto i giocatori casual quanto magari gli appassionati di FPS. Siamo nella terra di mezzo. Dopodiché, non saprei dire di preciso a cosa sia stato dovuto quel declino, se il problema è che non siamo stati in grado di innovare o perché non siamo stati in grado di abbracciare gli avanzamenti in termini di esperienza utente che sono stati fatti sul fronte casual del settore. In una certa misura, penso che sia questa seconda cosa. Quando giochi a un’avventura, vuoi sentirti intelligente. Sei il detective che risolve enigmi. Funziona così. Non vuoi rimanere bloccato. Sono rimasto molto colpito da What Remains of Edith Finch, un gioco per certi versi semplicistico ma in cui non rimani mai bloccato. Insomma, quello che dobbiamo fare è reinventarci, non necessariamente cambiare genere. Studiare gli avanzamenti fatti nel campo dell’esperienza utente, evitare di far rimanere bloccati i giocatori, farli sentire intelligenti… perché lo sono. Proporre enigmi complessi ma aiutarli prima che sopraggiunga la frustrazione. È un problema che abbiamo faticato un po’ tutti a risolvere. Return to Monkey Island è interessante perché contiene l’hint book ma, per come la vedo io, nel momento in cui vai a guardare i suggerimenti, hai già la sensazione di aver fallito. Per questo penso che dovremmo intervenire prima. Come fanno i giochi casual. Pensa ai giochi di tipo match three: quando rimani inattivo per un po’, vedi delle piccole scintille che spingono nella direzione giusta. Non ti senti trattato da imbecille.

Suppongo l’idea sia anche che se tanto andranno a cercare la soluzione su internet, tanto vale mettergliela nel gioco.

Certo. Ma il punto è che dovremmo riuscire ad evitare che al giocatore venga voglia di cercarla, la soluzione. Hanno la sensazione di aver fallito. E questo ti ammazza la motivazione: a quel punto, dopo che l’hai fatto una volta, tanto vale farlo per tutto il gioco.

Devo ammettere che è quello che mi succedeva da bambino coi giochi Sierra.

Beh, quello è perché i giochi Sierra… Lì è una questione diversa. Ma di nuovo, il problema è che nei giochi basati sui sistemi puoi aumentare gradualmente la difficoltà attraverso i sistemi, ma le avventure non funzionano così. Ogni evento, ogni enigma, è tutto predeterminato, quindi diventa difficile aumentarne gradualmente la difficoltà. A quel punto, ci sono sostanzialmente due approcci al design. Uno consiste nel progettare gli enigmi in maniera molto approfondita. L’altro consiste nel rendere tutto imperscrutabile, contorto. E insomma, Sierra ha prodotto tanti giochi bellissimi ma ha avuto spesso un approccio che definirei controverso al design degli enigmi. Mi viene in mente anche Simon the Sorcerer. E molti li ricordano con affetto anche perché erano difficili. Ma erano difficili perché gli enigmi non avevano senso nel contesto del mondo di gioco e delle motivazioni dei personaggi.

Eh, ci misero un po’ a trovare la quadratura. Per esempio, Gabriel Knight era un gioco molto meno ostile nei confronti del giocatore.

Sono assolutamente d’accordo. Gabriel Knight era bellissimo. Il terzo, però, era molto meno riuscito.

Lì ci furono anche altri problemi, non ultimo il passaggio obbligato al 3D.

Per come la vedo io, un grosso problema fu il fatto che in un’avventura è fondamentale entrare in sintonia con le emozioni dei personaggi. E la grafica 3D non era ancora pronta. Finì per unire il peggio dei due mondi. Lo capisco, in quel momento la pressione per il passaggio al 3D era enorme. Ma fu un errore.

Ai tempi, adorai il Virtual Theater. Non ho dubbi che fosse in larga misura un’illusione, ma mi dette davvero la sensazione di un mondo “vivo” all’interno di un’avventura punta e clicca. Ed era incredibile. Ne abbiamo parlato tre anni fa, mi dispiacque vederlo usato meno nei giochi successivi e mi ha fatto piacere vedervi recuperare quell’idea per Beyond a Steel Sky. Soprattutto perché trovo che sia un’impostazione ancora oggi particolare e a modo suo innovativa nel contesto dei punta e clicca. Certo, in generale è un’idea a cui siamo abituati perché qualsiasi gioco esca, ormai perfino gli sportivi, ha dentro un open world, ma nel genere dei punta e clicca non è così abusata. Secondo te ha funzionato, nel gioco?

Beh, è uno dei motivi per cui siamo passati al 3D. Parte del Virtual Theater originale era un’illusione, certo, ma soprattutto, il grosso limite, una cosa che oggi non sarebbe accettabile, era il fatto che i personaggi se ne andavano via e non avevi alcuna idea di dove fossero, di quale fosse il loro percorso. Quindi, ho pensato Beyond a Steel Sky strutturandolo ad arene, con zone anche molto ampie ma in cui hai sempre modo di capire dove si trovino i personaggi. Puoi vedere come si comportano, che azioni compiono. Ed è molto importante. Se giochi oggi a Lure of the Temptress, ti fa uscire matto.

Posso confermarlo. Ho comprato la raccolta del venticinquesimo anniversario e ci ho rigiocato. Ha ancora tanti elementi che ho amato, ma per gli standard odierni è goffo, scomodo.

L’altro problema è che sostanzialmente, all’epoca, l’unico utilizzo del Virtual Theater consisteva nel far fare a Ratpouch cose che non avresti potuto fare da solo. Ma è una cosa molto limitata, anche perché ovviamente, quando si tratta di cose che puoi fare anche tu, le fai da solo. Ci metti meno tempo. È quel che fa qualsiasi giocatore: cerca la soluzione più rapida, o comunque meno complessa, e non si diverte se ha la sensazione che non ci sia alcuna sfida. In Beneath a Steel Sky, la cosa dei personaggi che vanno in giro chissà dove funziona meglio, per esempio con Lamb che prende l’ascensore: sai dove va, sai dopo quanto torna, puoi ragionare su cosa fare con queste informazioni. Inoltre, cercammo di fare in modo che fosse possibile dare ordini su cose da fare solo se si trattava di cose che non potevi fare da solo. Ma non era semplice ideare situazioni del genere.

Per Beyond a Steel Sky, abbiamo avuto l’idea dell’hacking, che è sostanzialmente ispirata a Scratch, uno strumento che considero davvero intelligente e ben pensato. Di fatto, il nostro sistema di hacking è una variante di quello che fa Scratch. Così abbiamo creato uno strumento che ti permette di sovvertire il funzionamento del mondo di gioco e di farlo con un certo grado di libertà, perché dipende dal sistema che imposti. Ma soprattutto, era importante che i personaggi rispondessero in maniera adeguata i modi in cui sovverti il mondo, ed è lì che entra in gioco il Virtual Theater. Se poi funzioni bene non sta a me dirlo, però l’idea era quella. Permettere al giocatore di sovvertire il mondo come vuole e fare in modo che i personaggi reagiscano di conseguenza.

Suppongo che io volessi sapere più che altro se hai ottenuto il risultato a cui stavi mirando, e da come ne parli direi di sì

Sì, decisamente. Poi certo, guardi quello che hai fatto, e io non sono mai soddisfatto, ma siamo stati recensiti bene, i fan hanno apprezzato. Lo considero un successo.

Pensi che userete ancora quel sistema, o qualcosa di simile? Pensi che potrebbe funzionare con un Broken Sword?

È interessante, perché l’aspetto frustrante dello scrivere un’avventura sta nella quantità di contenuti unici che devi creare. E questo sistema ci ha permesso di implementare un gameplay sistemico che potevamo rendere più difficile nel corso del gioco. Quindi la risposta è sì. Penso che una qualche forma di gameplay sistemico renda un’avventura più ricca, perché ti dà la sensazione che il mondo di gioco sia a tua disposizione e tu possa fare quello che vuoi e divertirtici. Vogliamo personaggi che rispondano in modo divertente ma anche credibile. E questo sistema ci aiuta ad ottenerlo. Il complimento più grosso che ci è arrivato da alcuni giocatori è che gli enigmi non sembrano enigmi, sembrano invece sfide narrative interessanti. Che è esattamente quello che voglio ottenere. Non voglio limitarmi a ideare minigiochi o enigmi contorti basati sugli oggetti… Farlo è semplice. Ciò su cui lavoriamo davvero è la coerenza del mondo di gioco, dei personaggi, dei loro desideri e delle loro aspettative. Ed è questo a far andare avanti il racconto, attraverso gli ostacoli costituiti dagli enigmi.

Questo tuo discorso mi fa venire in mente i film d’azione, che a grandi linee puoi dividere in due categorie. Ci sono quelli che raccontano una storia attraverso l’azione e ci sono quelli che mettono in pausa la storia per mostrare dell’azione spettacolare e poi tornano alla storia. E penso ci sia una grossa differenza.

Assolutamente. Per esempio, quando Christopher Nolan scrive assieme a suo fratello, ne escono film con idee bellissime e sofisticate, mentre quando scrive da solo ne viene fuori solo una serie di grosse sequenze spettacolari e quello che sta in mezzo ha poco senso. Inception è geniale. Tenet è nonsense intellettuale.

È pur vero che il film è onesto, ti dice esplicitamente: goditela, non pensarci.

Sì, però è tutto incentrato sulla moglie dell’antagonista, Elizabeth, e la premessa era che lei aveva venduto un dipinto al marito, un multimiliardario e… E poi al centro del film c’è un bambino che non vediamo mai, di cui non sappiamo nulla, che è sempre lì sulla distanza. Non so, secondo me avrebbe bisogno di farsi aiutare da qualcuno che padroneggi meglio il concetto di struttura. Per esempio suo fratello.

OK, non sono troppo sicuro che ci sia una domanda in quello che sto per dire, ma mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Per Beyond a Steel Sky, hai lavorato con il servizio su abbonamento di Apple, perlomeno inizialmente. E c’è un certo altro servizio su abbonamento che sta dominando il settore ultimamente, Game Pass. È ancora aperto il dibattito su Game Pass. Per molti piccoli sviluppatori, costituisce un modo per coprire in partenza i costi di sviluppo. Di contro, parlavo con Rami Ismail e diceva che per quanto questa cosa sia positiva, il rovescio della medaglia è che con Game Pass non stai vendendo il tuo gioco al pubblico, lo stai vendendo allo staff di Xbox, quindi devi convincere solo quella manciata di persone. Il che significa che ci sono, quante, cinque persone, a decidere se il tuo gioco meriti di essere sul mercato o meno.

Mh. Però, Game Pass non chiede l’esclusiva…

probabilmente il timore è nel caso quello diventi il modello dominante per il futuro.

OK. Beh, il punto è che questo settore, dal punto di vista commerciale, cambia in maniera talmente rapida che non mi preoccuperei troppo di cosa accadrà fra tre anni.

Sì, ha detto anche questo.

Quello che mi sento di dire è che Game Pass aiuta gli sviluppatori a coprire in larga misura i costi di sviluppo, dando a Xbox i diritti sul gioco, e chiaramente vendi molte meno copie su Xbox. Ma non ti impediscono di vendere il gioco su PlayStation, su PC tramite altre vie o su piattaforme mobili. Per cui, insomma, certo, possiamo dire che è una situazione rischiosa e chissà cosa accadrà, ma fra tre anni le cose cambieranno. Rami è una persona molto intelligente, probabilmente più di me, e magari ha ragione, ma lavoro nel settore da quarant’anni e se c’è una cosa che ho capito è che conviene guardare avanti per un paio d’anni e prevedere cosa accadrà dopo è impossibile.

Questa conversazione mi ha fatto venire in mente uno scambio che ho avuto diversi anni fa con John Hare di Sensible Software. Si lamentava del fatto che un tempo venivi pagato in anticipo per sviluppare un gioco ma poi la situazione si è ribaltata, il peso economico dello sviluppo è passato sulle spalle degli sviluppatori e questo ha reso il tutto insostenibile per gli studi più piccoli.

Era molto privilegiato. Sensible e i Bitmap Brothers erano i due studi di maggior successo del Regno Unito e venivano pagati molto bene. Quindi quel che dice arriva da una posizione di grande privilegio. John è un grande, Sensible Software ha creato giochi splendidi, lui e Chris Yates sono due grandissimi… Ma quel sistema funzionava particolarmente bene per loro, così come per i Bitmap Brothers. Personalmente, preferisco l’idea che dobbiamo assumerci la responsabilità di trovare i finanziamenti… che è una cosa molto stressante, eh! Però così poi sei padrone del tuo destino. Il problema del modello basato sui publisher è che ci mettono loro i soldi, quindi si prendono una percentuale sproporzionata dei profitti. Nei primi anni Novanta, gli sviluppatori a volte riuscivano a guadagnare bene, ma già a metà anni Novanta l’idea di trarre profitto era diventata una battuta che ci raccontavamo nel settore. “Ah, i bei vecchi tempi…” Ho sicuramente raccontato questa cosa un sacco di volte, ma insomma, Broken Sword 3, in Europa, ha fruttato sedici milioni di dollari, dei quali dieci sono andati a THQ e due a noi, ma nel mezzo c’era stato il collasso del valore del dollaro e dovemmo chiedere un prestito in banca da duecentomila sterline per completare lo sviluppo. Quindi a THQ sono arrivati dieci milioni di dollari, meno due milioni per noi, probabilmente un altro per il costo della produzione, probabilmente un altro milione per il resto, fra marketing, e altro. Ci dissero di non aver fatto un buon profitto, diciamo che guadagnarono cinque milioni di dollari. Per noi fu un gioco in perdita, per quelle duecentomila sterline. E fu una perdita che ci trascinammo dietro per dieci anni, fino alla pubblicazione di Beneath a Steel Sky e Broken Sword su iOS. Non siamo mai andati in bancarotta, ma ci siamo andati vicini, eravamo insolventi, a causa di un modello totalmente ingiusto. Quindi, insomma, voglio bene a John e lo ammiro molto, ma non sono d’accordo.

Tu hai iniziato negli anni Ottanta…

Il mio primo gioco era per Sinclair ZX81, nel 1981.

E all’epoca, la scena dello sviluppo britannica era davvero affascinante, vitale. Dal tuo punto di vista, c’era un comun denominatore che vi caratterizzava tutti o era solo un gran casino?

Era un gran casino. Ma c’era tantissima passione. Ed è per questo che amo una fiera come il Reboot, che si focalizza sulla passione dello sviluppo di videogiochi, invece che su monetizzazione, NFT e altra roba del genere. Che è roba periferica. Comunque, nel Regno Unito, i nostri studi di sviluppo ebbero un successo enorme dal 1981 al 1984, direi. Era veramente l’era d’oro, creammo un sacco di IP. Poi arrivarono le aziende americane. Io, per esempio, lavorai per U.S. Gold, sono stato a capo dello sviluppo per loro e poi per Activision. E in pratica, tutti i migliori studi britannici si ritrovarono a lavorare per le aziende americane, convertendo su Spectrum e Amstrad i loro giochi. Avevamo i migliori talenti al mondo nello scrivere codice pulito e di qualità, e invece di impiegarlo per creare giochi innovativi, come avevamo fatto nei cinque anni precedenti, passammo i cinque anni successivi a convertire giochi americani. Non stavamo più creando ricchezza. Poi arrivarono gli anni Novanta e le cose cambiarono un pochino. Noi, per esempio, fondammo Revolution e riuscimmo a tornare a lavorare sulle nostre creazioni. Nel 1990, c’era un’azienda chiamata Mirrorsoft, di proprietà di Robert Maxwell, padre di Gillaine Maxwell. Era una persona incredibilmente corrotta ma Mirrorsoft ebbe un successo enorme. E penso che dobbiamo molto a Mirrorsoft, perché Sean Brennan, un genio nella gestione, era deputy managing director, e l’azienda era veramente focalizzata sulla produzione di giochi. E invece di limitarsi a lavorare sui prodotti americani, come facevano tutti, scommisero per esempio su di noi, su Revolution. Sean venne da me, quando lavoravo in Activision, che era sull’orlo della bancarotta, e mi disse che se mai avessi fondato un mio studio di sviluppo sarei dovuto andare da lui. Non mi promise nulla, ma mi disse di andare da loro, mi incoraggiò. Ma lavorarono anche coi Bitmap Brothers, con Sensible Software… seguirono tanti sviluppatori britannici che altrimenti non penso avrebbero trovato uno sbocco. Francamente non ci avevo mai pensato prima… e Maxwell era veramente corrotto, senza dubbio, rubava soldi dalle pensioni, roba del genere, una cosa mostruosa. Allo stesso tempo, però, questa piccola divisione chiamata Mirrorsoft diede davvero una spinta alla scena dello sviluppo britannica.

Hai menzionato U.S. Gold, mi vengono in mente Ocean, Psygnosis, Imagine, Gremlin… gli sviluppatori e produttori britannici erano dominanti negli anni Ottanta e primi Novanta… Poi cos’è successo? Oggi siete rimasti praticamente solo voi e Team17...

Onestamente non saprei. Ammiro molto Team17, Debbie è fenomenale, e tra l’altro passare da una fase in cui lavoravano praticamente solo su Worms al diventare il publisher che sono oggi, in maniera tra l’altro rapidissima, è stato notevole.

Ma cosa è successo alla fine degli anni Novanta? L’avvento del 3D?

Beh, noi di Revolution… siamo praticamente collassati in quel periodo. Non per ripetermi, ma a Leeds, negli anni Ottanta, avevamo alcuni fra i migliori sviluppatori nell’ambito del 3D. Videogiochi con grafica 3D in tempo reale, vettoriale, forse eravamo i migliori al mondo. Ma il problema è che tutti i nostri publisher si sono presi i soldi e tanti saluti. Una Ubisoft ha tenuto duro e ha costruito pensando al futuro, ma i publisher inglesi, quando sono arrivate le Activision, le grandi aziende americane, hanno venduto senza pensarci un attimo. Ocean, Gremlin… tutti. Credo sia un limite di ambizione tipicamente britannico: se arriva qualcuno che offre cinque milioni di sterline, vendiamo immediatamente per andarcene a fare i pensionati in spiaggia. Mentre le aziende americane o francesi si sono mostrate più ambiziose. Quindi il problema inizia con questa propensione a vendere e prosegue col fatto che la grossa azienda americana arriva e investe quando le cose vanno bene, ma se il mercato si contrae, i tagli cominciano dalle divisioni europee, certo non dalla sede centrale in America. Abbiamo attraversato un declino e il passaggio dal 2D al 3D che è avvenuto a fine anni Novanta è stato sismico. E penso che a quel punto gli investimenti dall’estero si siano ridotti, perché non avevamo più i nostri publisher.

È un paragone forse un po’ stiracchiato ma quel che hai descritto mi ricorda in qualche modo il collasso del grande cinema italiano, che rivaleggiava con Hollywood ma sul finire degli anni Settanta è andato incontro al declino.

Ah, interessante. Penso a La dolce vita… e a La grande bellezza, che trovo un suo fantastico erede. La dolce vita era incentrato sulla bellezza degli anni Cinquanta e La grande bellezza parla invece di corruzione marcia. Ma è la stessa gente, che danza alla stessa maniera, solo che i primi fumano sigarette e guidano auto sportive, mentre i secondi sono corrotti, nell’anima, nel lavoro. Per questo l’ho amato. Ma ho amato anche È stata la mano di Dio. E Nuovo cinema Paradiso! Quando lo guardai pensai che fosse un film degli anni Sessanta e invece…

OK, chiudo come mio solito chiedendoti quale sia l’ultimo grande videogioco a cui hai giocato.

Ultimamente non ho avuto molto tempo per giocare… Mi sto divertendo con Return to Monkey Island ma non penso che lo chiamerei un gran gioco. Ho amato tantissimo Untitled Goose Gane, per il modo in cui la storia emerge dal gameplay. Ho amato Inside per lo stesso motivo, sono giochi che non si appoggiano sulle parole e raccontano le loro storie esclusivamente attraverso il gameplay. Ho apprezzato molto What Remains of Edith Finch, anche se mi aspettavo un finale più forte, ma anche lì ho amato come viene usato il gameplay per raccontare, per esempio in quel momento fantastico in cui affetti il pesce. E basta un momento del genere per stamparti un gioco nella memoria. Di contro, faccio fatica ad apprezzare, o addirittura a capire come si possano apprezzare i cosiddetti “walking simulator”.

Beh, c’è chi chiamerebbe What Remains of Edith Finch un walking simulator…

Però conteneva abbastanza senso di sfida da darti soddisfazione. Mentre i giochi con cui faccio fatica sono quelli che non ti danno alcun senso di sfida. Sei lì che esplori un mondo, magari anche bellissimo, ma un videogioco deve darti un qualche senso di sfida.

Hai menzionato Her Story e mi sembri amare il cinema, mi viene quindi spontaneo chiederti se hai giocato a Immortality.

No, ma ho intenzione di farlo. Parlare di autori è un po’ pretenzioso ma Sam Barlow e Lucas Pope sono due persone che ammiro davvero perché se ne fregano, fanno quello che vogliono. Sono sempre molto innovativi, adoro i loro giochi.

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