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Dusk: Awakening e gli italiani di belle speranze

Dusk: Awakening e gli italiani di belle speranze

Durante la Nordic Game Conference 2019, ho avuto modo di conoscere i membri dello studio italiano Cog Impact e di provare un prototipo del gioco che stanno sviluppando, Dusk: Awakening. Potete leggere brevemente le mie impressioni in questo articolo e, se volete qualcosa di più approfondito, trovate un’anteprima mista a intervista su Everyeye. L’intervista è all’art director Matteo Marzorati, è ascoltabile per intero in coda all’Outcast Reportage sulla fiera, e adesso ve la potete pure leggere trascritta di seguito. Servizio completo.

Buona lettura!

Allora, innanzitutto dimmi chi sei, chi siete, da dove arrivate…

Sono Matteo e faccio parte del team Cog Impact. Siamo sei ragazzi milanesi e due siciliani e stiamo sviluppando Dusk: Awakening, che abbiamo portato qui alla Nordic Game Conference. Dusk: Awakening è uno stealth puzzle platformer che vuole richiamare certi giochi anni Novanta come Oddworld: Abe’s Oddyssey, Flashback e Another World e quindi raccontare la storia di un robot disperso in un pianeta piano di pericoli, trappole e con un’antica civilità. La feature principale si chiama Duskgun, è la pistola che dà il nome al gioco e permette di controllare dell’energia. Il mondo è cosparso di una luce bianca che può essere catturata con la pistola e scaricata su elementi di gioco, per esempio macchinari o nemici. E ti permette di controllare la mente dei nemici e risolvere enigmi attraverso il loro corpo. Ovviamente, ci sono diverse tipologie di nemici, che influenzano la risoluzione dei puzzle. Questo è, diciamo, il riassunto di Dusk.

Siamo qui per la prima volta, è il nostro primo gioco, quindi rompiamo un po’ la regola secondo cui i primi dieci giochi che sviluppi fanno schifo: speriamo che questo non faccia schifo. Siamo molto fortunati ad essere qui, perché il gioco è ancora in fase di prototipo. Abbiamo alle spalle circa cinque mesi di sviluppo a tempo pieno e il gioco è nato all’interno di un corso curricolare al Politecnico di Milano, per videogame design.

Eravate tutti studenti lì?

Sì, a parte i due sound designer, che arrivano dalla Sicilia.

E loro come li avete recuperati?

A caso su internet! Ci sono questi bellissimi gruppi su Facebook, una piattaforma ormai davvero utile, sotto questo punto di vista. Ci trovi sviluppatori che vogliono partecipare, vogliono condividere le loro conoscenze, e fortunatamente abbiamo trovato questi due ragazzi molto in gamba, uno in particolare che ha anche dimestichezza con Unity e sa quindi implementare un suono adattivo, che è molto importante per il nostro gioco. E abbiamo sviluppato davvero un bel rapporto, anche incontrandoci dal vivo a fiere come la Games Week, la Game Room e appunto la Nordic. Il gioco, dicevo, è nato nel corso del professor Lanzi…

Quindi era proprio un progetto scolastico?

Esatto. Infatti ringraziamo molto il professor Lanzi, che ci ha dato trenta e lode e ci ha detto: “OK, voi avete finito questo prototipo ma secondo me vi conviene andare avanti.” Abbiamo seguito il suo consiglio e, all’ultimo giorno disponibile, abbiamo fatto l’application per la Games Week. Non ci speravamo ma siamo stati presi, con un prototipo che era completamente diverso, aveva una grafica in stile industriale, al posto di quello più sci-fi che stiamo usando ora. Abbiamo cercato quindi di rimodellare tutto il gioco un mese prima della Games Week e di fatto siamo andati avanti così: un passo alla volta, seguendo il ritmo delle fiere a cui abbiamo partecipato.

Ma partecipare alla Games Week cosa significa? C’è una competizione? Avete uno stand?

Significa che grazie ad AESVI, in quanto sviluppatore indie, hai un piccolo spazio per mostrare il tuo gioco. E questo è molto utile soprattutto per vedere le reazioni dei giocatori. Non tanto per i feedback, in quello è magari più utile un contesto come quello della Nordic Game Conference, in cui sono game designer a provare il gioco e darti suggerimenti. Ma vedere le reazioni dei giocatori, cosa piace, cosa non piace, guardare i volti, capire se stanno apprezzando o no. Per noi è stato molto importante, un banco di prova, abbiamo ricevuto molte reazioni positive, anche da giocatori della nostra età, fra i venticinque e i trent’anni, che sono poi il nostro target primario. E poi, alla Game Rome, siamo andati per mostrare una nuova versione del gioco ed è stato un punto di svolta. Abbiamo ottenuto lo Showcase Award, venendo quindi eletti come miglior gioco della fiera, e abbiamo ricevuto l’opportunità di partecipare al Discovery Contest, che è una competizione attraverso la quale la Nordic sceglie sedici giochi in sedici paesi diversi e li porta in finale. Noi siamo venuti qui a competere, siamo rimasti fuori dalla finalissima a quattro ma ci riteniamo comunque soddisfatti, soprattutto perché per noi è importante aver raggiunto una consapevolezza che ci permetta di portare avanti lo sviluppo del gioco a tempo pieno. Tornare indietro sui nostri passi, analizzare il prototipo per capire cosa vada bene e cosa no, ricominciare da capo. Quindi, apriremo Unity da zero, ora sappiamo cos’è il nostro gioco, abbiamo una visione, anche se è il nostro primo gioco, proviamo a metterci l’anima e a lavorare a tempo pieno. Per il momento non abbiamo un publisher, lo stiamo cercando, ma vogliamo comunque crederci. E se vogliamo che l’Italia diventi un luogo in cui è bello sviluppare videogiochi, dobbiamo metterci un po’ di fortuna, un po’ di voglia di fare… rischiare. Se non lo facciamo noi, che abbiamo questa opportunità, non lo farà nessun altro.

Tra l’altro voi siete stati selezionati per il contest… questo vuol dire che è stata l’organizzazione a portarvi qua?

Esattamente. Il Discovery Contest viene organizzato in ogni singolo paese e si attacca a una fiera del paese stesso. C’è una giuria composta da mi pare quattro giudici e il format è molto carino, divertente: devi fare un pitch di circa un quarto d’ora, con tre round da cinque minuti ciascuno. Nel tuo round devi spiegare com’è il gioco, mostrando anche video di gameplay, trailer… e devi cercare di convincere i giudici come se fossero dei potenziali investitori. Si valuta quindi la serietà del componente del team, il gioco stesso, le potenzialità future… una serie di fattori.

È proprio una simulazione di quando proponi il gioco a un publisher per cercare finanziamenti.

Esattamente, come negli appuntamenti che abbiamo avuto qui in fiera. Abbiamo vinto la competizione a tre, con nostra grande sorpresa, battendo giochi che secondo noi erano molto più rifiniti e ambiziosi del nostro.

Magari si valutano cose diverse, del potenziale su cui puoi investire rispetto a una cosa che magari è già più strutturata…

Può essere ma non saprei. Noi siamo giovani, io mi sono laureato due mesi fa, abbiamo appena finito di studiare, stiamo vivendo una cosa che forse all’inizio ci sembrava più grande di noi. Ora ci stiamo calando nell’ambiente e vediamo un po’ come funziona.

Ora cominciate ad essere arroganti!

[ride] Esatto, andiamo in giro a fare gli splendidi.

Tra l’altro voi non siete arrivati alla finalissima, peccato, però anche su quel fronte la competizione è bella perché alla Nordic, tipicamente, ogni anno c’è un ospite particolarmente di rilievo che partecipa poi alla finale come giudice. Quest’anno c’è Warren Spector, se non sbaglio l’anno scorso era Fumito Ueda, prima ancora Kojima… E immagino sia anche emozionante farti valutare da una leggenda del game design…

Direi proprio di sì. Fra l’altro, al secondo giorno, eravamo molto stanchi, alle cinque del pomeriggio, arriva questo signore di mezz’età discreto, tranquillo, molto silenzioso, si avvicina a noi, ci saluta, ci giriamo e vediamo che è Warren Spector. Si scatena il panico ma iniziamo a raccontargli il gioco. Lui, un po’ come i giocatori alla Games Week, non diceva nulla, esprimeva approvazione o disapprovazione solo con lo sguardo. Ed è stato un modo di comunicare incredibile: con pochi gesti, poche parole, ha comunicato molto di quello che pensava del nostro gioco. Il concept gli è piaciuto, ha apprezzato la grafica, ci ha dato alcuni consigli, soprattutto per la parte in cui bisogna nascondersi nelle zone d’ombra. Perché ci sono due meccaniche principali, come dicevamo prima, c’è la pistola, che permette di usare l’elettricità in modi diversi, ma questa genera della luce e tu, assorbendo la luce, puoi creare zone d’ombra in cui nascondersi. E lui ci ha dato ottimi consigli su questo aspetto, che potrebbe essere un po’ complesso per giocatori non avvezzi al genere. E ricevere consigli da Warren Spector… uau… ma anche essere intervistato da te, che ti leggevo da piccolo su PSM… è surreale.

Beh, è ancora surreale anche per me, quando mi capita di intervistare Warren Spector! Però, ecco, questa è una cosa che io noto un po’ da outsider, mentre tu inizi ad avere una prospettiva più da sviluppatore: è una comunità molto accogliente e, soprattutto, in questi contesti, in una fiera dedicata allo sviluppo, in cui non devono fare marketing… nessuno se la mena. Anche Warren Spector, quelli più famosi, girano tranquilli, amici, disponibili a darsi una mano, a chiacchierare…

Esattamente. A proposito dell’atmosfera, questa è una fra le parti migliori di queste fiere. C’è il classico stereotipo dello sviluppatore un po’ scappato di casa, persona poco socievole… è uno stereotipo che esiste ancora, per certi versi, in alcune parti del nostro paese, in certe mentalità. Ma questa fiera dimostra il contrario. Esci a fumarti una sigaretta e vedi che magari hanno l’accendino ma vengono apposta a chiederti da accendere per chiacchierare, parlare di loro, della situazione dei videogiochi nel loro paese… C’è uno scambio incredibile, ho scoperto come funzionano le cose in Ucraina, il publishing in Russia… sono cose che non potresti mai scoprire cercando su Google, non ti verrebbe nemmeno da cercarle. La cosa incredibile è questa spontaneità che, per esempio, non ho visto all’E3 quando ci sono andato da giornalista, per Spaziogames. Ti dà il sorriso, ti fa pensare che sia un bell’ambiente in cui lavorare e vivere.

Quando non c’è di mezzo il PR, con tutto il rispetto per il lavoro che fanno loro, perché ovviamente è diverso il contesto, quando c’è modo di essere spontanei, è proprio un bel posto.

Poi la mia esperienza è da partecipante al Discovery Contest, quindi giochi indipendenti, alcuni con un publisher e altri no, ma comunque sei lì che parli col game director, il game designer, e c’è una sincerità di fondo nel dare feedback, oltretutto considerando che ti esponi con un prototipo. Ed è una figata, perché ovviamente in altri contesti non ti direbbero mai male del tuo gioco ma in questo ambito domina la sincerità, perché è voglia sincera di aiutare. E per noi è un tesoro, perché siamo ancora alla fase di prototipo, quindi possiamo cambiare tante cose.

E adesso qual è la situazione? Senza entrare nei dettagli ma… immagino che qui abbiate trovato contatti… il piano qual è?

Vogliamo fare la follia. Io, come ho detto, mi sono appena laureato e non sto cercando lavoro, il classico posto da user experience designer o designer di interfaccia web. Ho deciso di proseguire a tempo pieno sul gioco, a mie spese, senza stipendio, e così anche altri membri del team. Vogliamo ricominciare da zero, avere il prototipo bene in mente e cominciare a sistemare tutto ciò che abbiamo creato solo nei primi giorni in cui abbiamo smanettato con Unity. Non sapevamo come funzionasse, non conoscevamo C Sharp, il linguaggio che si usa per questo tipo di giochi, e quindi, ora che abbiamo lavorato per quasi un anno sul gioco, abbiamo capito come funziona il sistema. Stiamo rivedendo il sistema di movimento, di sparo… E questo ci richiederà molto meno tempo di prima: invece di provare a migliorare una cosa già esistente, che forse non funziona, nella programmazione è forse molto meglio tagliare nettamente e ricominciare da capo. Quindi l’idea adesso è di ricominciare, avere questa build per parlare con i publisher e mostrare le feature principali del gioco, ma lavoreremo sulla nuova versione, con dei livelli finali, una narrazione… Usare la build per farci conoscere e, nel frattempo, lavorare sul serio al gioco. E questa, forse, è una cosa che prima di venire alla Nordic non ci saremmo mai detti. Forse non avremmo avuto il coraggio di ricominciare da zero e rifare tutto da capo sfruttando quello che abbiamo imparato in questi anni.

Anche perché qui, avendo incontrato possibili publisher, vi avranno dato le loro impressioni, mostrato interesse… che poi non garantisce nulla, il classico “Le faremo sapere”, però ti fai un’idea dell’effetto che il gioco fa.

Chiaro, non ti si presenta mai il publisher con la valigetta piena di soldi. Loro vogliono vedere il gioco, provarlo internamente, leggere i documenti… perché il ruolo di game designer è un ruolo di regia. Devi scrivere documenti di design, stilare un business plan, capire le ambizioni del gioco, il target, il pubblico a cui si rivolge, le ore di gameplay, il numero di livelli… e tutto questo finisce in un business plan che deve essere presentato ai publisher. Ma serve coerenza: non possiamo pensare che cinque persone possano sviluppare un gioco da trenta ore con un gameplay super complesso e il publisher valuta anche questo, la coerenza nel presentare un business plan concreto. Quindi, il publisher ti chiede di inviargli tutti i documenti e da lì poi valuterà. Noi adesso siamo in fase di valutazione, aspetteremo risposte e vedremo come si evolverà la situazione.

Chiaro che se poi sei quello che ha avuto l’idea fenomenale… prima ho visto il talk dell’art designer di Reigns e ha detto che per proporsi a Devolver hanno inviato una mail con dentro una gif animata del prototipo e con scritto solo “Tinder ma di Game of Thrones”. E il giorno dopo Devolver gli ha risposto “OK!”.

Beh, ovviamente, lì hai l’idea formidabile, di quelle che si vedono ogni due anni…

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