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L'alcolico processo alle intenzioni: esco da Kojima e ho molta paura

L'alcolico processo alle intenzioni: esco da Kojima e ho molta paura

L’altra sera, al club dei gentlemen, ero in uno di quegli splendidi stati alterati da cibo piccante e fiumi di birra e chiacchieravo con gli amici - i suddetti gentlemen - di come, semplicemente, Kojima si sia rotto le palle. E da tempo. Di fronte alla loro amarezza e all’incapacità di spiegarsi il significato in questo universo di Ground Zeroes io ero lì, che li ascoltavo con la calma serafica di chi pensa di aver capito tutto e in realtà è solo in uno splendido stato alterato da cibo piccante e fiumi di birra. Vedete, il fatto non è tanto il prezzo, la durata, la trama o tantomeno quanto ha venduto Ground Zeroes, soprattutto dal momento che Kojima è uno degli sviluppatori tripla A meno tripla A dell’industria. (Mi) è evidente che Hideo, ormai, sta portando avanti una battaglia silenziosa contro chi lo costringe a continuare in un universo narrativo che non ha più nulla da dire (o che, se ce l’ha, ha inevitabilmente esaurito l’appeal di un tempo), e che quando parla lo fa per delle ore senza dire niente, ricollegandosi stancamente a cose che ci siamo già tutti dimenticati, mascherando il tutto con quell’invidiabile abilità nipponica del “ti faccio credere che sia tutto studiato a tavolino, calcolato nel minimo dettaglio e che io per primo ho una memoria clamorosamente inappuntabile” mentre, in realtà, c’è solo la più grande dimostrazione pubblica di paraculaggine da tempi immemori. Vuoi Snake? Ti do Snake, ma come voglio io, e guai a lamentarti, ché l’IP è mia e la gestisco io.

Intendiamoci, lo dico con tutto il rispetto e l’ammirazione del mondo, ché come dicevo al club, seduto sulla poltrona in pelle umana mentre sorseggiavo il mio MacCutcheon 60, se Kojima diventasse indipendente e aprisse una campagna Kickstarter, un progetto qualsiasi, aprirei un account e gli verserei tutti i mesi lo stipendio. Kojima non ha più voglia di guerra, politica, parenti serpenti e bende sugli occhi: vuole solo sperimentare. Attraverso la scrittura, attraverso la regia cinematografica vera (mica David Cage) applicata al videogioco, vuole fare quello che Gravity ha fatto al piano sequenza e mischiarlo a quello che Gone Home (anche se comunque Gone Home è stupendo ma mi sta sulle palle, quindi fate conto che abbia scritto The Stanley Parable) ha fatto ai videogiochi. Sento giopep che pensa “processo alle intenzionih11!!”* e rispondo “sì, probabile”, ma penso anche che sono anni che Kojima va in giro a ripetere che vorrebbe finirla con Metal Gear, che Metal Gear [Inserire capitolo] è l’ultimo che dirige, che il FOX Engine l’ha fatto per fare altro, che il mondo là fuori ha bisogno di lui e, insomma, mi viene anche piuttosto facile vedere che le intenzioni e i prodotti finali non sempre combacino. Tanto più che mi viene veramente facile ipotizzare come, se fosse stato un Bleszinski qualsiasi e non un giapponese cresciuto da rigore, gratitudine, rispetto e altri valori marziali giapponesi, Kojima si sarebbe stufato già molto tempo fa della situazione (più o meno dalle parti di Snake Eater), imboccando la porta degli uffici di Konami senza guardarsi indietro e sfoggiando uno dei più potenti diti medi nella storia delle falangi-falangine-falangette.

Dicevo: Ground Zeroes è evidentemente un prologo breve, ma è comunque apprezzabile nel suo sperimentare coi canoni della serie rimanendo mani e piedi in quella mitologia, offrendo, per giunta, anche qualche mirabile strizzatina d’occhio. Sarà che mi sono venuti a noia i seguiti e le riproposizioni, sarà che ho recentemente apprezzato opere brevi ma pregne e disdegnato (con qualche eccezione) opere lunghe e prolisse, ma non riesco a comprendere del tutto le aspre critiche ricevute dal gioco. Soprattutto considerando che è sempre stato dichiaratamente un assaggino, un modo per dare ai fan quella dose di Metal Gear che manca nelle vene casalinghe da sette anni… poco importa che non sia la blue meth di Heisenberg o la scorta personale di Tony Montana, a uno in astinenza va bene anche il sottoprodotto del sottoprodotto: il grosso della questione arriverà con The Phantom Pain.

Ecco, mentre esprimevo questo concetto, come per magia, ho avuto l’illuminazione che mi ha rivelato cosa sarà (o meglio, cosa dovrebbe essere se il mondo fosse governato dalle visioni mistiche) The Phantom Pain: qualcosa in grado di scatenare la rivolta popolare tra gli ultimi veri fan, quelli che capiscono la trama di Metal Gear anche più di Kojima e che sono sopravvissuti sette anni, riuscendo persino a trovare del buono “non-oggettivo” in Ground Zeroes.

Il buono non-oggettivo.

The Phantom Pain, e lo dico qui e ora affinché rimanga da qualche parte a imperitura memoria (?), sarà il lavoro più concettuale e meno Metal Gear di tutta la produzione Kojimiana. Senza voler analizzare à la NeoGAF il poco che abbiamo visto fin’ora, tra gli ingredienti abbiamo, in ordine rigorosamente sparso, una donna scosciata, delle cavalcate nel deserto, una o più jeep, nuovi personaggi, un ospedale, arti amputati, allucinazioni, balene volanti… e un coma di sette anni. Ora, magari io starò esagerando in preda ai (molto) postumi delle salse speziate e dei mischioni imbarazzanti, ma il rischio che alla fine sia stato tutto (e quando dico tutto intendo TUTTO) un sogno o un’allucinazione di Snake non solo è dietro l’angolo, ma sarebbe pure il crimine perfetto di Kojima: me lo vedo il genio di Setagaya che, alla sua scrivania, pensa “Laggente e Konami vogliono che continui a fare Metal Gear senza darmi spazio creativo? Bene, vorrà dire che mi prenderò lo spazio creativo in Metal Gear facendo un casino tale da chiudere comunque la serie”.

Che poi, obiettivamente, per rendere i videogiochi di Kojima un ibrido ancora più spinto non ci vuole molto, ma comunque sarebbe la ciliegina sulla torta. Una porzione di gioco corta, insignificante e, per giunta, resa completamente inattendibile dalla rivelazione finale di un gioco a metà tra il cinema e l’esperienza videoludica fatta di narrazione più o meno ambientale, che annulla completamente più di venticinque anni di saga. “The Snake is a lie” come ultima meta-citazione della serie, titoli di coda e, da qualche parte a Setagaya, un sorridente uomo giapponese che si è tolto in un colpo solo le richieste pressanti di mezzo mondo e il dolce fardello di una vita. Nel modo più diabolico possibile. Poco importa che i giocatori di mezzo mondo siano in piazza a protestare e il produttore stia bussando alla porta con l’ascia bipenne: avete voluto un altro gioco della serie quando vi chiedevo più spazio? Beh, avete vinto la battaglia, ma io ho vinto la guerra. The war has changed.

Magari, però, la prossima volta un risottino.

Old! #57 – Aprile 1974

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Librodrome #47 – Immensamente The LEGO Book

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