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Racconti dall'ospizio #134: Einhänder ti voglio bene

Racconti dall'ospizio #134: Einhänder ti voglio bene

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

La storia tra me ed Einhänder è un po’ una di quelle puntate di un telefilm per ragazzini pieni di incomprensioni, battute sceme, doppi sensi, piccoli crimini e incoscienza adolescenziale. Nel 1997 avevo dodici anni, la PlayStation era la prima console che vivessi con cognizione di causa, da persona informata più o meno sui fatti e consapevole dei giochi da desiderare. Dopo una prima infanzia spesa principalmente su PC, Amiga e riviste dedicate, condividendo di fatto la passione di mio padre, abbastanza restio al fascino delle console, gli unici contatti con l’altra metà del gaming casalingo li avevo avuti grazie al fedelissimo Game Boy e ai pomeriggi passati a casa di amici con SNES o Neo Geo, per cui nutrivo un torbido desiderio di possesso. Ma a casa mia vigeva la sacra legge della Master Race, e fu solo la console di Sony, grazie a Wipeout e alla follia dell’allora ragazzo di mia sorella, che ce la vendette dopo qualche mese, se nel 1996 mi gettai nel colorato mondo delle console con anima e corpo, con conseguente full immersion nelle produzioni orientali e aerosol a base di riviste tipo PSM, Consolemania e Super Console.

Un anno dopo, mi sentivo fortissimo, preparato, capace di discernere il bene dal male, ma non ero davvero pronto allo shock di Final Fantasy VII, per cui, semplicemente entrai in uno stato di adorazione incondizionato per Square, sia in qualità di software house che di casa produttrice. Mi bastava leggere uno dei titoli random in stile “Il nuovo capolavoro di Square” (perché tanto era sempre così, a prescindere) che partiva la manovra finanziaria per poterlo recuperare, o la ricerca di informazioni sull’eventuale conversione PAL. Perché il problema è che non ho mai avuto una PSX modificata in vita mia, né una NTSC, che era un po’ un dramma. Considerando che Einhänder uscì in Giappone proprio a ridosso della versione europea di Final Fantasy VII, entrò subito nell’ottica di “roba da comprare assolutamente perché poi va a finire che si scopre che sparando a tutti i boss succede che resuscita Aerith a caso nella memory card”. Passarono i mesi, la scimmia cresceva e neanche le katane di Bushido Blade in versione PAL riuscivano a ucciderla, mentre fantasticavo la guerra tra la Terra e la Luna e mi nutrivo dell’hype per la versione americana, a cui comunque non avrei potuto giocare, a meno di non passare al lato oscuro.

Arrivò giugno, finì l’inutilissima seconda media e, in attesa dei Mondiali che sanciranno il mio primo pianto isterico per una delusione calcistica, decisi di attuare il mio piano malvagio: recuperare una copia del gioco per piazzarmi a casa di un mio amico dedito alla pirateria brutta e, con la scusa di “una vita a testa”, soddisfare il mio desiderio compulsivo. I giochi pirata erano contro i miei principi, ma a mali estremi, estremi rimedi, anche perché soldi per la versione NTSC non ce n’erano, ché avevo comprato Bomba ’98 (minuto di silenzio). Il problema è che trovare Einhänder non era una cosa facile, perché non era un titolo richiesto, e il mio amico si riforniva dal gradino base della catena pirata, ovvero il tizio random per strada. C’era bisogno dei contatti giusti, di rientrare nello stesso giro che avevo intimato a mio padre di abbandonare dopo il tristo destino di Amiga: gli spacciatori di giochi di categoria superiore alle bancarelle, ovvero i negozietti loschi nascosti nei palazzi storici, tra il tufo e la puzza di umido. Dopo diversi blitz senza successo in compagnia del genitore, proprio nel momento massimo tra la frustrazione e la voglia repressa di ordinarne una copia originale di importazione da un negozio di Moncalieri (non so perché ma mi è sempre rimasto impresso 'sto fatto) preso a caso dalle pubblicità sulle riviste, comparve il titolo del gioco, senza umlaut, nella lista di quelli disponibili in uno dei sordidi e anonimi raccoglitori ad anelli di un non meglio specificato negozio del centro. Era fatta.

Alla fine ci giocammo per due o tre pomeriggi e non lo finimmo, perché il disco si bloccava dopo il midboss del quinto livello e il mio compagno di classe non apprezzava tantissimo il genere, troppo distante dai suoi gusti binari sport/violenza. Eppure, furono due pomeriggi bellissimi, che mi riportarono al mio amore per Project X, e fui totalmente rapito dagli effetti di luce, dai cambi di prospettiva, dall’eleganza del design di navicelle e nemici, ma soprattutto delle musiche di Kenichiro Fukui, non tanto per i beat techno, quanto nei momenti in cui smettevano di pompare nelle casse per lasciare spazio a cori e a piccoli passaggi sinfonici o di atmosfera. In quei momenti, non esistevano più le lamentele del mio amico - benché quello strano sodalizio andò avanti per tutto l’anno successivo e mi permise di mettere le mani sul proibitissimo Thrill Kill e di vedere due nostre lettere pubblicate su PSM - né i mondiali, né nulla. Soltanto Einhänder, soltanto il mio amore per Square, soltanto quelle schegge di luce impazzite.

Il finale della storia è ambientato anni dopo, quando ho finalmente finito il gioco emulato su PSP, in un’altra delle mie poche scorribande nel mondo della pirateria. Erano gli anni dell’università, dell’esame di Storia del Cinema e del manuale di analisi dei film, dove fra Chion e Metz, ricordo benissimo “la funzione anaempatica della musica”. Se a tutti veniva in mente il Danubio Blu di 2001: Odissea nello Spazio, in un angolo della mia mente, per quanto in maniera non esattamente corretta, a me veniva in mente Silence, e lo stage 3A del capolavoro di Square.

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