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Silent Hill, la prima volta non si scorda mai

Silent Hill, la prima volta non si scorda mai

La prima volta che sono andato al cinema da solo è stato per vedere il film di Silent Hill.

Era il 2006, era un tempo diverso, un tempo molto più ingenuo e io ero molto diverso.
I videogiochi mi piacevano sempre ma il mio approccio a essi era radicalmente diverso, anche a causa dell’accesso alle console che mi fu negato in quinta elementare per le solite questioni di scuola, forse esasperando quel mio interesse, associandolo a un piacere proibito. I videogiochi, quindi, fino al 2008 per me erano scampoli di esperienze PC, passate da mano a mano, partitelle a casa di compagni di classe e trasmissione orale di miti e leggende.

In questa riduzione a materia orale, l’elemento emergente era proprio la narrazione, o meglio, il delle vicende del gioco, filtrate attraverso le esperienze personali, incidentalmente amplificate dal fattore “figata” che travalica qualsiasi pecca grafica o indecisione di gameplay.

Non credo di essermi mai smarcato davvero da questo gusto per la chiacchiera sui videogiochi, specialmente verso esperienze che per me sono lontanissime, come i favoleggiati anni della Master League dei vari PES, che prima di tutto complimenti alla costanza, oppure tutti i fenomeni (e le fenomenologie) dei Football Manager dal quale io non riesco ad estrinsecare nulla. Oppure i grand strategy: ho sempre ammirato il loro essere pagine bianche in cui ognuno riesce a scrivere una storia sempre diversa, ma nel momento in cui debbo metterci mano io, disastro e noia.

Col passare degli anni ha preso il sopravvento molto più la narrativa del giocatore che quella del gioco, delle storie che i videogiochi raccontano non mi frega quasi più niente; a parte eccezioni meritevoli è difficile che giochi qualcosa “per la trama”. La mia attenzione è spostata molto di più su altro, non per snobismo, ma perché alla fine, nella maggior parte dei casi, quelle storie sono echi di storie raccontate altrove, modellate in un’altra forma e che per le quali la narrazione è solo una parte dell’esperienza, subordinata al gameplay.

Se ai due estremi di un ipotetico asse mettessimo Storia e Gameplay, all’epoca delle vicende narrate sarei stato tutto spostato sulla prima, ora come ora, sul secondo, godendomi i miei gustosissimi improperi contro questo insensato predominio culturale che la “lore” ha acquisito nel corso degli anni.

Questo periodo “preistorico” fatto di tradizione orale del videogioco è durato parecchio, confinato su un PC e con pochissima cognizione di causa di quello che si potesse e non si potesse fare con l’hardware che avevo a disposizione. Poco probabilmente, ricordando i patemi che mi dava per funzionare. Gli indimenticabili anni de “l’accendere la stufa vicino al PC perché altrimenti non si accende”.

Arrivo quindi al 2006 con una fascinazione per l’adattamento di cose di cui ho solo sentito parlare. Di Silent Hill so per certo che deve far cacare sotto e tanto mi basta, attraversando quella fase adolescenziale morbosa per la quale un film horror è tra i modi migliori di passare una serata, con un surplus di violenza, misteri, segreti sepolti nel passato e colpi di scena.

E ovviamente non volle accompagnarmi nessuno.

Silent Hill lo vidi a Gaeta, al cinema Ariston, che solo un paio d’anni dopo sarebbe diventato il punto di ritrovo della mia comitiva di amici (“appuntamento alle 10 all’Ariston” cit.), ma nel 2006 di questi amici nemmeno l’ombra. Ero un bambino borghese che passava le estati a leggere, prevalentemente, nella amata/odiata villa al mare dei nonni, separato dalla città da un tratto di strada particolarmente pericoloso e con nessun motivo particolarmente stringente per andarci dopo il tramonto, che arrivava anche molto tardi nella stagione estiva nel basso Lazio.

Solo che io volevo proprio andare al cinema.

Amici zero; con i miei genitori nemmeno perché era pure passata quell’età di andare al cinema con mamma e papà a guardare un film horror in odore di morbosità e violenza, per di più, e fu così che mi feci lasciare all’entrata del cinema di un normale giorno infrasettimanale per lo spettacolo serale.

La sala praticamente vuota, che ricordo più grande di quella che effettivamente è, tranne qualche testa sparuta che potevi contare sulle dita di una mano.
Buio in sala, inizia il film.

Non so effettivamente dire quanto mi sia piaciuto, so che non mi fece schifo, ma vero pure non avevo termini di paragone e niente sapevo dell’iconografia. Era un film horror, bello violento, con un sacco di mostri disgustosi e un’ambientazione asfissiante, credo tanto bastasse per essere contento.

Quando uscii dal cinema c’era la nebbia, nessuno per strada e il cellulare non prendeva. Come ricordo il doppio meccanismo di razionalizzazione da una parte ed estremo divertimento nel cedere allo sgomento della situazione.

Per chi non lo sapesse, Gaeta è un posto umido, ex zona paludosa bonificata durante il ventennio, dove l’afa ti si azzecca addosso e condensa in una foschia salmastra che si attacca sulla pella, ai vestiti e alle automobili. Non sei mai asciutto a Gaeta.

Pure la questione della mancanza di campo del telefono non ha nessuna matrice ultraterrena, ma solo ripetitori criminosamente sottodimensionati per il flusso di dati estivo, fatto che rende la città uno dei posti peggio connessi d’estate al pari forse di Lucca durante la fiera.

Non credo avessi davvero paura, ma credo mi piacesse l’idea di averne. Giusto l’assenza di campo mi metteva a disagio (ora come all’ora), ma in un modo feci, probabilmente camminai un po’ in giro, in mezzo alla foschia, che tanto vera e propria nebbia non era, fino a che non riuscii a chiamare i miei e farmi venire a prendere.

Andare al cinema da solo con la maggiore età è diventato uno standard, l’unica strada per la sopravvivenza se volevo continuare a guardare film al cinema, l’unico motivo per il quale indossare le mutande la domenica. Se la patente è stato il vero strumento che mi ha permesso di consolidare l’abitudine, mi piace pensare che tutto sia iniziato al cinema Ariston di Gaeta, come molte altre cose del resto, ma quelle sono altre storie.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Konami, che trovate riassunta a questo indirizzo.

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