Racconti dall'Ospizio #90: No, you can’t run Crysis
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Non sono la persona giusta per scrivere di Crysis. Non lo sono perché, inconsapevole precursore di quella cricca di ossessivi un po’ sfigati chiamata Master Race, nel novembre 2007 mi affrettai ad acquistare il gioco in una qualche edizione di latta richiamante la trama ottagonale delle nanotute, mi entusiasmai nell’ascoltare il briefing motivazionale di Prophet prima del lancio e ammirai la spettacolare sequenza in cui Nomad, prima di poter aprire il paracadute, veniva colpito da qualcosa durante la discesa, schiantandosi come la mia folle arroganza contro l’ineluttabile verità: il mio PC non poteva eseguire Crysis.
Invero, l’allora potentissima GTX 8800 avrebbe anche potuto permettermi di godermi la campagna single player, ma solo accettando il livello di dettaglio medio. Un compromesso appetibile quanto accontentarsi di un porno quando dall’altro lato del tavolo hai Jennifer Lawrence ammiccante. D’altro canto, alla sua uscita non esisteva alcun computer in grado di eseguire la seconda fatica di Cevat Yerli in tutto il suo splendore. Non sarebbero bastate le migliori schede dell’anno successivo, e nemmeno i processori da mille euro promossi da Intel con un video in cui le galline selvatiche delle isole Lingshan esplodevano in un tripudio di piume. Non ce l’avrebbero fatta le schede video del biennio dopo e, a dirla tutta, il silicio continuò a essere inadeguato anche nel 2011, anno in cui fui costretto a giocarci prima di andare a Francoforte a recensire il suo successore. Non fosse stato per quel press tour, sarei ancora qui oggi a osservarne le fasi iniziali, la morte atroce di Aztec, la luce oscillante proiettata dalla mia arma durante la corsa sulla spiaggia. Avrei continuato a millantare il suo splendore, vestendo una maglietta riportante i nomi di Nomad, Prophet, Psycho, Aztec, Jester e Alcatraz, compresa una sola volta in un decennio, al Carroponte, da un ragazzo che mi abbracciò commosso. Avrei sottolineato, seduto a fianco di qualche consolaro e davanti a una birra, come le GeForce attuali, trenta volte più veloci di quelle del 2007, e le più recenti Radeon (solo ventisei volte meglio delle progenitrici) riescano a gestirlo finalmente senza rallentamenti, ma solo in Full HD, mica in 4K. Con il 4K non ce la facciamo proprio, non scherziamo. Avrei poi approfondito i motivi tecnici di cotanto elitarismo, ricordando che utilizzare le allora innovative DirectX 10 per animare 85.000 shader, o applicare il primo sistema di illuminazione in grado di tenere conto delle ombre proiettate dai modelli poligonali su loro stessi, leggendo duecento volte le texture per ogni singolo pixel di ogni singolo fotogramma, significava scientemente decidere di varare una nave da crociera munita di ottantacinquemila motorini elettrici a batteria. Un pachiderma trasportante un manipolo di esauriti possessori di quadruple SLI che sputano sulla folla astante, poco prima di affondare a quindici metri dal porto.
E avrei mancato il punto. Perché era una volta indossata la tuta di Nomad che Crysis faceva la magia, non a calce della notizia riguardante il nuovo supercomputer cinese in grado di annichilire le controparti USA, dove il primo commento sotto la faccia di un orientale tronfio in camice bianco è, ancora nel 2017, "But can it run Crysis?" La faceva nel momento in cui ti avvicinavi a un villaggio, in modalità invisibile, e iniziavi a eliminare le sentinelle per poi sparire di nuovo nel fogliame. Fogliame che si muoveva facendoti spazio, un particolare sommerso dai dettagli di cento titoli più recenti ed evoluti ma che riaffiora mentre vedi Aloy camminare tra le frasche. Qualche stolto ti mostra Horizon: Zero Dawn sulla PlayStation 4 Pro per bullarsi dell’HDR e tu reagisci con “Oh, ma 'ste piante fanno cagare”. Il suo punto di forza risiedeva nella possibilità, una volta svanita l’efficacia dell’approccio stealth, di trasformarti in un tank calamitante proiettili, intento ad entrare nella baracca nemica sfondando il tetto, ginocchio a terra come piacerebbe a Deadpool, svuotando il caricatore sui malcapitati. Un continuo convogliare l’energia verso invisibilità, velocità, resistenza e forza capace di terrorizzare la povera milizia nordcoreana, che tipicamente passava dall’inseguirti all’essere inseguita. In Crysis non si alzava la testa contro un Predator facendosi forza a botte di M24 e urla nella notte. In Crysis noi eravamo il Predator e le vittime, che con il proseguire del gioco cercavano di munirsi di patetiche nanotute cinesi contraffatte, erano sacrificate a una razza superiore.
Una sensazione di così inebriante potenza, in grado di compensare al calo della libertà di azione che sopraggiungeva addentrandosi nell’area controllata dagli alieni. Lì l’azione si restringeva su sentiero a bassa gravità privo di vie alternative, preludio a un finale speso a sparare a testa in su, verso meduse volanti poco soddisfacenti. Per tornare a provare l’esaltazione iniziale, bisognava cimentarsi nel secondo capitolo, sfortunatamente adeguato ai limiti delle orrende console di fine anni 2000, quindi privo di ambientazioni insensatamente ampie e percorribili, ma capace di trasformare Alcatraz, e con lui noi, nel re di una New York distrutta dal grosso delle forze aliene. Questa volta bipedi, questa volta perfette per cercare inutilmente di tenere testa a una armatura tramutatasi in una protesi bellica a base di parkour.
Quel press tour iniziò con una bella PR di EA che, sorridente, mi mostrò la camera d’albergo dove avrei dovuto dilaniare Ceph per due giorni. Collegato al plasma stereoscopico, trovai un Xbox 360 che accolsi con uno spontaneo e italianissimo “Cos’è ‘sta merda?”. La PR colse il mio disappunto nonostante l’idioma e mi spostò verso una camera munita di due GeForce e un monitor solo leggermente più piccolo. Spesi il resto della nottata a bere l’economico whisky del minibar ascoltando in loop il tema di Hans Zimmer, osservando la skyline di Francoforte dalla finestra. Quando mi sentii sufficientemente inebriato, affrontai i Ceph secondo il mio schema: approccio invisibile allo squadrone nemico, successivo piombo a pioggia e particolare attenzione per l’ultimo sopravvissuto, che afferravo e sollevavo lentamente, con calma esibita, sullo sfondo di un Chrysler building immerso nel tramonto, dicendo ad alta voce verso lo schermo “Non ho capito, cos’è che volevate?”
Un moto di infantilismo applicato anche nel terzo, altalenante episodio, meritevole ancora oggi il prezzo del biglietto per la bellezza visiva di alcuni livelli. C’è chi dice fosse privo della giocabilità dei predecessori, io ricordo che lo percorsi a fianco di Psycho, innamorato della luce filtrante dalle rovine immerse nella vegetazione. Non sono la persona giusta.
Io non riesco a far girare Crysis.