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Hellblade: Senua’s Sacrifice mi ha quasi mandato all’ospedale, ma lo amo lo stesso

Hellblade: Senua’s Sacrifice mi ha quasi mandato all’ospedale, ma lo amo lo stesso

Partiamo subito dal fatto che Hellblade: Senua’s Sacrifice è un gioco che mi ha fatto male, e non solo emotivamente, dico proprio fisicamente. È una sera d’agosto, di quelle in cui a Napoli fa un caldo boia, che un po’ (ma tipo due secondi) pensi al fresco che ti sei lasciato in Inghilterra e poi finisci per ringraziare colpevolmente l’esistenza dell’aria condizionata. Non dovendo uscire su embargo e potendo prendermela comoda per ragioni di pubblicazioni estive dal ritmo meno ossessivo, la mia idea è quella di godermi il viaggio di Senua lontano dalla eco delle polemiche a riguardo sui social. Come accade solo con i giochi significativi, però, una volta messe le cuffie, il concetto di tempo diventa totalmente relativo e mi ritrovo totalmente stranito e rapito dalle voci nella testa di Senua. Lo stato di sospensione e tensione si fa talmente alto che, in piena sessione di gioco, nelle fasi finali, quando tutto diventa opprimente, non sento mio padre entrare in camera per dirmi una cosa. Non avverto nulla, la mia attenzione è solo e soltanto per Senua, la sua coscienza, nel vano tentativo di distinguere cosa sia vero e cosa in realtà non lo sia. Mi basta cogliere qualcosa muoversi convulsamente al limite del mio campo visivo (mio padre che cerca di attirare la mia attenzione) per essere totalmente sorpreso, tanto da saltare sulla sedia, perdendo il controllo della gamba destra e centrando con il mignolo del piede destro lo spigolo di un mobile accanto alla postazione di gioco. Mio padre quasi scappa per lo spavento di riflesso, io mi faccio un male di quelli che fino al calendario 2021 va bene così con le interrogazioni celestiali e finisco la serata/nottata a tamponare un’emorragia copiosa, mentre penso di dover fare una lastra per escludere qualcosa di più serio.

Senua si cruccia per il mignolo di Davide.

L’aneddoto stupido, oltre a qualificare immediatamente la mia persona in maniera non proprio dignitosa, è anche un indice della qualità principale di Hellblade: Senua’s Sacrifice, ovvero la capacità di rapire il giocatore e lasciarlo inerme, in totale balia delle tante sfaccettature della mente della protagonista. L’empatia con la giovane guerriera è istantanea, perché Senua, come personaggio, funziona su diversi piani, in quanto unione di contrasti fortissimi. È forte perché è una guerriera pervicace e disperata, ma è anche fragilissima a causa delle sue paure e per un senso di inadeguatezza indotto che è una scarica di pugni nello stomaco continua. È preda di pulsioni omicide, suicide, e sacrificali, ma trova rifugio salvifico in un amore che trascende anche la morte, mentre le voci nel cervello registrate in audio binaurale (vi ricordate il video del barbiere che sembra che stia per farvi un trattamento Sweeney Todd? Quella roba lì!), sotto la direzione e il consiglio di chi quei mormorii contraddittori li sente davvero, sono raggelanti e affascinanti. raccontano di Senua e di tutte le persone che soffrono molto più di tantissime linee di dialogo o spiegoni noiosi.

La giovane della tribù dei Pitti mi è entrata nel cuore perché di base, nonostante la psicosi o forse proprio nella lucida e tenera ammissione di sentirsi spezzata dentro, è una persona tremendamente consapevole di essere in difficoltà, imperfetta, e cerca semplicemente un posto in un mondo che la reputa sbagliata, mostrando il lato più gelido, terribile, spietato della normalità: il pregiudizio e l’esclusione sociale. I disturbi mentali sono una malattia sociale, e riuscire a rappresentarlo, raccontarlo, ma soprattutto farlo percerpire in un videogioco che, nel suo essere un “tripla I” (ovvero indipendente, ma con un budget corposo), ribadisce e afferma continuamente il suo voler aderire agli schemi canonici degli action adventure, pure quando fondamentalmente non serve, ha del miracoloso. Hellblade è un gioco imperfetto tanto quanto la mente di Senua: è troppo lungo, reitera alcune sequenze fino alla noia e gli enigmi non sono neanche sempre brillanti. però è un gioco caldo, perché quasi ogni frammento di esperienza ha un senso, essendo tutto sempre filtrato dalla mente di Senua. E dunque la frustrazione, il fastidio e la paura fanno parte dell’esperienza e, per quanto non siano piacevoli da sentirsi addosso, basta guardare negli occhi la giovane donna e l’espressività di Melina Juergens (editor di video di Ninja Theory che si è trovata quasi per caso ad essere l’attrice protagonista del gioco) ti fa passare ogni piccola esitazione. E il fatto che l’abbia capito più il pubblico della critica, è un risultato ancora più straordinario.

Non so se nella vostra vita abbiate mai incontrato una persona in cui lo smarrimento e il senso di inadeguatezza diventano parte integrante dei suoi pensieri quotidiani, ma se è così, Senua vi ricorderà tutti quei momenti passati con lei, costruendo una rapporto ovviamente squilibrato, tossico, difficile da recidere e talmente intenso da essere sbagliato, perché non esiste nulla di più errato dell’illusione di poter salvare da soli qualcun altro. Per questo motivo mi ha fatto male anche emotivamente, come una pugnalata che colpisce una ferita suturata, portandomi fuori dalla mia comfort zone per affrontare ancora una volta qualcosa che fa comunque bene (ma anche male) sempre avere a mente. E quindi ho amato e odiato ogni minuto passato nel Nifelheim, rifugiandomi a volte nei momenti di scollamento fra gioco e narrazione per prendermi un break dall’intensità emotiva, e vivendo una divisione critica notevole tra il fatto che Ninja Theory avrebbe potuto limare tantissime cose per rendere il gioco spettacoloso in ogni sua manifestazione, ma ringraziando per quei momenti in cui ci si stacca da Senua per ragionare in maniera meccanica, finendo quasi per prendere fiato. Dopo mesi di distanza, continuo a pensare che in Hellblade: Senua’s Sacrifice ci siano troppe cose inutili e ridondanti e ho francamente dimenticato alcuni passaggi di gameplay, perché non eccezionali. Di contro, però, non penso dimenticherò mai la sospensione del respiro nell’attraversare la magnificenza di alcuni ambienti, naturalmente sublimi ma resi potentissimi dalla trasfigurazione quasi onirica data dall’essere paesaggi mentali. Ma soprattutto non credo di aver mai conosciuto davvero così tanto un personaggio in un videogioco. Senua è viva, è reale, non va salvata né giudicata attraverso il pietismo ma va compresa, perché ha tanto da insegnare a tutti, sia su di noi, che sugli “altri”, che sul videogioco come medium culturale.

Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.

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