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Il prevedibile splendore di Coco

Il prevedibile splendore di Coco

Stringi stringi, Pixar fa da anni sempre lo stesso film sulla paura di essere dimenticati (o di dimenticare), sul processo di crescita del protagonista e sull'importanza del ricordo e dei legami familiari. Le loro storie iniziano da una premessa che introduce il contesto, avviene un evento di rottura che sconvolge l’ecosistema del protagonista ed egli si mette in viaggio, con uno o più compagni, per poter mettere una pezza sui suoi errori. Il viaggio non è mai solo esteriore, ma anche interiore: il protagonista, attraverso le esperienze maturate lungo il percorso, prende coscienza dell’importanza di qualche elemento che precedentemente riteneva di poco conto (o addirittura nocivo) e impara qualcosa di più su se stesso. Al termine del viaggio, nell’aver rimesso al suo posto ogni cosa, il protagonista attua un cambiamento radicale che modifica lo status quo iniziale del suo ambiente.

È così Toy Story, e lo sono anche Alla Ricerca di Nemo/Dory, Monsters & Co., Inside Out, Il viaggio di Arlo e tutti gli altri. Ed è inevitabile che, dopo diciannove film, questa struttura narrativa inizi a sembrare un po' troppo prevedibile e poco coraggiosa. Pixar ha trovato la formula e ogni nuovo film che sforna sembra ribadire la volontà di attenervisi in maniera ortodossa: qui e lì ci infila qualche svolta narrativa nuova, qualche invenzione visiva che ti resta impressa e un insegnamento mai banale per gli spettatori più piccini, ma la sostanza e lo stile restano pressoché gli stessi. Non è necessariamente un male che lo studio d’animazione abbia una sua cifra stilistica, una sua idea di cinema definita, anzi, è un tratto distintivo che non di rado si può identificare nella maggior parte dei grandi autori cinematografici. In ogni caso, fa specie che quello che per anni è stato il baluardo dell’originalità applicata al cinema sia oggi così fedele a una linea di pensiero immutata e, a quanto pare, immutabile. Forse, e qui lancio una provocazione, al di là degli esordi, veramente rivoluzionari, Pixar non è mai stata poi così originale: ha sempre messo in campo idee fresche, luoghi, territori e contesti inesplorati, ma la sua produzione non è mai stata poi così avanguardistica dal punto di vista narrativo. In fondo, più che quello che racconti, conta come lo racconti. Puoi raccontare la stessa storia innumerevoli volte, in maniere diverse; conta quanta cura, classe e buongusto ci metti nel raccontarlo. E se ci si ferma un attimo a riflettere, col senno di poi, è evidente come lo studio d’animazione negli anni abbia profuso i propri sforzi in tal senso, cercando la forma perfetta della sua opera tipo. Gli si può rimproverare il fatto di averla trovata con il trittico Ratatouille, Wall-E e Up e di aver campato di rendita da lì in poi. È legittimo. Se però lo chiedete a me, non me la sento di farlo, perché al netto di quanto detto finora, Pixar ha (quasi) sempre portato a casa un risultato clamoroso, e Coco non fa eccezione.

Aprire i rubinetti, grazie.

Miguel Rivera è un ragazzino messicano di dodici anni, ultimo rampollo di una famiglia di calzolai che ha rinnegato la musica dopo che il suo trisnonno, eccellente chitarrista e cantautore, abbandonò mamà Imelda e la piccola mamà Coco per andare in giro per il mondo a cercare gloria. In gran segreto, Miguel coltiva la passione per Ernesto de la Cruz, il più famoso musicista della storia del Messico, ed è intenzionato a partecipare, durante il Dia de los muertos, a un talent show organizzato nella piazza del suo paese. Durante il giorno dei morti accadrà qualcosa, che non sto qui a spiegarvi, per cui Miguel si ritroverà nell’aldilà e dovrà cercare un modo per tornare nel mondo dei vivi prima che la festività sia terminata.

Che bella concezione della morte che hanno i messicani: allegra, luminosa, lontanissima dalla lugubre tristezza della nostra cultura. Il Dia de los muertos è una vera festa di musica, colori e luci, un’occasione per imbandire tavole piene di cibo e riconciliarsi con i propri defunti. Rifancendosi a una tradizione così ricca e completamente estranea al culto dei morti occidentale, oltre che a un character design dei personaggi passati a miglior vita che rievoca la Silly Symphony The Skeleton Dance, Coco evita il rischio di déjà-vu non solo nel confronto con La sposa cadavere di Tim Burton, ma anche con Il libro della vita di Jorge R. Gutierrez, che aveva trattato l’argomento del Dia de los muertos nel 2014, optando per uno stile più caricaturale e marionettistico; pur condividendo inevitabilmente alcuni tratti, il film Pixar ha finalità, toni e una qualità globale piuttosto diverse, al punto che le due pellicole sembrano giocare in campionati diversi. Forse non è nemmeno lo stesso sport.

Sul piano visivo, Coco è il solito spettacolo raffinatissimo, stracolmo di idee che basterebbero per almeno un paio di film. Ogni fotogramma trasuda non solo la consueta, maniacale cura per i dettagli, ma anche passione viscerale e profondo rispetto per la cultura dalla quale attinge. Ed è un fattore non trascurabile: sebbene la lunga gestazione dell’opera di Lee Unkrich e Adrian Molina (iniziata più o meno nel 2011) scongiuri ogni elucubrazione di stampo politico e sulla tempistica della sua uscita in sala, è inevitabile quantomeno intravedere una curiosa, coraggiosa e benvoluta coincidenza nel fatto che, in piena era Trump, il più blasonato studio d’animazione americano distribuisca nelle sale un film così appassionato nei confronti del Messico e delle sue tradizioni.

Pur essendo una gioia per gli occhi, ricca di riferimenti visivi e colte citazioni, è sul piano emotivo che il nuovo film Pixar gioca le sue carte migliori. Senza negarsi quel pizzico di ruffianeria che non guasta, Coco riesce a lasciarti lì con gli occhi lucidi e il groppo in gola, senza alcun ritegno per la tua virilità. Lo fa tratteggiando personaggi adorabili, concreti, melodrammatici quanto basta, e toccando le corde giuste, come al solito, nella maniera più elegante possibile. Coglie il vero potere evocativo della musica, capace di spalancare le porte della memoria e lasciare entrare un fiume incontrollato di ricordi, sentimenti ed emozioni; un potere capace di ridare vitalità e riaccendere il grigio volto di chi sembrava a tanto così da abbandonare il nostro piano dell’esistenza. È probabile che il valore di quanto detto finora dipenda non solo da quanto riusciate a entrare in sintonia con la pellicola, ma anche, ovviamente, dal vostro trascorso e dal rapporto con le vostre radici: così come succese per il meraviglioso Quando c’era Marnie dello Studio Ghibli, quando vengono tirati in ballo i nonni io mi sciolgo come neve al sole.

Ma non è solo questo: Coco è una fra le opere Pixar più concentrate sull’argomento e sul messaggio che intendono trasmettere. Anche l’immancabile “avventurina”, parte centrale del viaggio del protagonista e del secondo atto del film (da prassi il momento più debole delle storie raccontate dallo studio d'animazione), m'è parsa più circoscritta che in altri casi, meno funambolica e dispersiva, meno distaccata dal resto del film. Così come mi ha dato la sensazione che non si fosse perso troppo tempo nemmeno a elaborare gag slapstick di qualità superiore al minimo sindacale.

Coco non perde mai di vista ciò che intende comunicare, resta aggrappato a suggestioni e sensazioni, alla paura dell’oblio e all’importanza di perdersi e ritrovarsi, scaldando il cuore e bagnando le guance. E questo, per quanto mi riguarda, sopperisce a una struttura narrativa che, dopo diciannove film, inizia a essere un po' troppo prevedibile e poco coraggiosa.

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