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Il prigioniero coreano non le manda a dire

Il prigioniero coreano non le manda a dire

Il titolo originale de Il prigioniero coreano è Geumul, rete, ed è in fondo una dichiarazione d'intenti piuttosto netta. Sì, certo, il protagonista è un pescatore, usa una rete, ma la sua è la storia di una persona che si ritrova intrappolata in una tragica rete fatta di incomprensioni, burocrazia, ideologie portate all'estremo e assurda contrapposizione tra i due volti della Corea, entrambi capaci di spingersi ben oltre il lecito e l'umano, seppur in maniere e con intenzioni diverse. Si tratta di un approccio semplice, diretto, asciutto, magari anche semplicistico, per un film che del resto si spoglia quasi completamente di estetismi e soluzioni visive originali, inseguendo una narrazione asciutta, senza complicazioni o svolte particolari.

Non ci sono colpi di scena, non ci sono allegorie sottili (anzi, quel che si vede è di un grossolano talmente forte da non poter essere involontario), c'è invece una lunga serie di personaggi abbastanza tagliati con l'accetta, messi in fila per spiegare una tesi chiara fin da subito, ribadirla, sottolinearla, non lasciare alcun dubbio. Il vero twist sta nel fatto che potrebbe risultare pedante e didascalico - e magari per alcuni lo è - ma trova invece una discreta forza drammatica e colpisce grazie al suo tono amaro e in fondo ironico. Racconta di un pescatore nordcoreano trascinato dalla corrente oltre confine, che si ritrova in Corea del Sud e finisce vittima di eventi e incomprensioni, con le due forze politiche che non sanno se vederlo come disertore, vittima degli eventi, spia, traditore, invasore, uomo in fuga. Ma in tutti i casi, anche quando la situazione viene chiarita, entrano in gioco corruzione, ossessioni, ideologie e ipocrisia a trasformare un semplice equivoco in un mezzo inferno.

Kim Ki-duk ha insomma diretto un film estremamente politico, che riflette l'assurda essenza radicale di ciò che vuole raccontare traducendola anche nella forma del racconto. Ne viene fuori un film la cui tesi è in fondo quella di non prendere posizioni in una direzione o nell'altra, spiegando invece quanto sia facile diventare tali e quali a ciò che si odia e si teme se ci si abbandona all'ossessione. Asciutto nella forma, molto intenso nelle interpretazioni, surreale nella natura quasi macchiettistica di certi spunti che propone (e, quindi, probabilmente credibilissimo), Il prigioniero coreano è forse un film eccessivamente semplice e prevedibile ma in questo anche un po' figlio della necessità di urlare ad alta voce determinate cose. E, in fondo, proprio questo, l'assenza del Kim Ki-duk più estremo, fa bene a un film che non ha bisogno di partire per la tangente: tanto ci sono già le due Coree, se non il pianeta intero, su quella tangente.

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Per onestà intellettuale sottolineo che l'ho visto quasi un anno fa, a luglio 2017, quando è uscito al cinema qua in Francia. Ed era in lingua originale, quindi non mi assumo responsabilità sul doppiaggio, che con il cinema orientale è spesso problematico. Nei cinema italiani, comunque, ci arriva oggi.

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