Killzone, Horizon e una vita nei videogiochi: quattro chiacchiere con Angie Smets di Guerrilla Games
Durante la prima giornata di Nordic Game Conference 2018, Angie Smets, produttrice esecutiva presso Guerrilla Games, è intervenuta per raccontare il lungo e laborioso processo che ha portato il suo studio da un decennio di lavoro sulla serie di Killzone alla creazione e al clamoroso successo di Horizon: Zero Dawn. Vi ho raccontato brevemente quell'intervento nell'Outcast Reportage dedicato alla fiera e in futuro, appena sarà possibile pubblicarlo, potrete leggerne un resoconto molto dettagliato nella nostra rubrica Post Mortem. Nel frattempo, però, vi propongo questa intervista che Smets mi ha concesso durante la fiera e nella quale abbiamo chiacchierato della sua carriera, delle decisioni complicate legate alla nascita di Horizon e di altri temi interessanti.
Buona lettura!
Come è avvenuto il tuo primo incontro con i videogiochi?
Ci sono cresciuta! Avevamo a casa un Pong e quello è stato il mio primo videogioco. In generale, mia madre li amava, quindi nel weekend, magari la domenica pomeriggio, se c'era brutto tempo e pioveva, come accade spesso in Olanda, io, mia sorella e nostra madre giocavamo a Pong. Per un bel po' di tempo abbiamo avuto solo quel gioco e in effetti non sapevo nemmeno che ne esistessero altri. Poi acquistammo un Philips Videopac, che aveva quelle cartuccione enormi da infilarci dentro. Era fantastico.
Comprammo credo tre giochi diversi ed era una novità clamorosa: potevamo cambiare gioco! Il mio preferito era Super Bee. Si controllava una piccola ape che mangiava dei frutti. I livelli erano pieni di mura tra le quali dovevi muoverti sempre più velocemente, evitando i muri e raccogliendo i frutti. Era il mio gioco preferito. Ci giocammo per anni.
Puoi citarmi altri giochi che ti hanno spinto a decidere di lavorare nel settore?
Eh, ma vedi, è buffo: non ho mai realmente deciso che avrei lavorato nei videogiochi. Non pensavo che creare videogiochi potesse essere un lavoro, forse anche perché quando ero piccola non ce n'erano tanti come adesso. C'era Mario, certo, ci giocai tantissimo. Ma insomma, non era certo una delle classiche carriere a cui veniva spontaneo aspirare, non avrei nemmeno saputo come fare.
Sicuramente c'era meno accesso al settore…
Beh, per esempio non c'erano scuole. Oggi, in praticamente qualsiasi nazione ci sono corsi universitari e organizzati da altre scuole incentrati sullo sviluppo di videogiochi. Ci sono addirittura le specializzazioni: puoi seguire corsi specifici per lavorare nelle animazioni, nella grafica, nella programmazione. All'epoca non esisteva nulla del genere.
Comunque, io ho studiato ingegneria industriale e c'era una specializzazione in “Human-Computer Interaction”. In pratica si lavorava sulle interfacce delle fotocopiatrici industriali. Ma insomma, c'era comunque un elemento digitale. Sicuramente ero già attratta da quell'aspetto ed è così che ho iniziato a introdurmi nel settore: lavorando sul design per CD-I e per software su CD-ROM in generale. Oggi non ricordiamo con grande affetto quei sistemi e sicuramente, col senno di poi, era una tecnologia limitata, ma all'epoca era molto intrigante.
Il primo gioco su cui ho effettivamente lavorato era un simulatore di flipper intitolato Roll 'em up. Era molto semplice, in grafica 2D, però aveva dalla sua il fatto di essere basato su una tecnologia cross-platform, quindi girava su Windows, Mac, Linux e BOS, un sistema operativo molto vecchio. Poi iniziarono a spuntare dispositivi portatili basati sul Palm OS, e mi trovai a lavorare anche su quelle piattaforme.
In che ruolo?
Lavoravo come designer per uno studio di nome Lost Boys, che era focalizzato sulla produzione multimediale. Poi, però, quando iniziarono a girare molti più soldi grazie alla bolla di internet, ottennero dei grossi finanziamenti che utilizzarono per acquisire un altro studio. Da quella fusione nacque Guerrilla Games. Entrarono in contatto con Sony, con cui trovarono un accordo di pubblicazione, e quindi mi unii al nuovo studio per lavorare su giochi PlayStation 2.
Ricordo di essere andata negli uffici perché avevano il kit di sviluppo e di essere rimasta a bocca aperta: si potevano creare animazioni di grande qualità, con effetti di trasparenza, tutto fluido… Io all'epoca stavo lavorando sul progetto per un set top box e volevo riempirlo di animazioni, ma l'hardware era limitato, poteva permettersi appena sei fotogrammi al secondo… pessimo… diciamo che dovevi usare un approccio stilistico differente. Al che capisci che l'impatto di PlayStation 2 fu deflagrante. Comunque, è così che ho iniziato.
Prima hai menzionato l'abbondanza attuale di corsi di studio, universitari e non, per aspiranti sviluppatori… a tuo parere, è importante frequentarne per provare a entrare nel settore?
Credo che sia importante ricevere un'educazione, sviluppare se stessi. Molti di noi in Guerrilla, sicuramente i più vecchi di noi, non hanno ricevuto un'educazione specifica, per il semplice fatto che corsi del genere non esistevano. Alcuni di noi, poi, hanno dei background che magari non ti aspetteresti, per esempio in biologia o ingegneria meccanica…
… che comunque, volendo, potrebbero risultare utili per le competenze particolari che sviluppi?
Talvolta. Per esempio, abbiamo un ingegnere meccanico nel reparto del design visivo. Se devi lavorare su dei robot, quel tipo di educazione può risultare utile. A mio parere, tutte quelle persone sono accomunate da una grande passione per i videogiochi. Molti dei nostri programmatori si conoscevano già da prima attraverso la loro passione per la programmazione, coltivata come hobby.
Comunque, in generale, credo che frequentare corsi di studio legati al settore sia molto utile. Ti insegnano parecchio su questo lavoro, ti permettono di conoscere i vari tool che sono disponibili. Inoltre, credo che con la crescita sempre maggiore del settore, diventi più importante imparare a lavorare con altre persone. Ai vecchi tempi, era normale sviluppare un gioco da soli o con un altro paio di persone, quindi l'aspetto della collaborazione era meno importante. Con la crescita in dimensioni dei team, perlomeno nell'ambito dei giochi tripla A, è diventato fondamentale essere in grado di far funzionare assieme le varie conoscenze specifiche in ambiti diversi. Insomma, la collaborazione è fondamentale.
Ti mancano quei giorni in cui anche i giochi “grossi” venivano sviluppati da due o tre persone? Ti piacerebbe avere occasione di lavorare su progetti più piccoli o stai benissimo così, impegnata sulle megaproduzioni?
Sto benissimo così. Altrimenti non potrei fare il mio lavoro! Credo che per me sia stato importante crescere di pari passo col settore. Inizialmente, in Guerrilla eravamo circa venticinque o trenta persone, ma d'altra parte l'hardware dell'epoca era molto limitato, non poteva certo far girare la grafica che si produce con studi da centinaia di persone. Col passaggio a PlayStation 3, fummo costretti ad aumentare notevolmente le dimensioni dello studio e passammo a quasi cento persone. Ed era un bel cambiamento. Ma in linea di massima è comunque un processo di crescita graduale, un passo alla volta, con una crescita misurata. Inoltre, abbiamo iniziato anche ad affidare parte del lavoro in outsourcing, che è una cosa che ti permette di mantenere gestibili le dimensioni di un progetto, senza essere costretto ad ampliare troppo le dimensioni dello studio. Certi studi che lavorano in ambito tripla A sono anche da settecento o perfino ottocento persone… noi cerchiamo di volare più bassi, nei limiti del possibile. E in quello, sicuramente, l'outsourcing, per esempio ad aziende asiatiche, che lavorano in maniera eccellente, aiuta moltissimo.
Insomma, è una crescita graduale, che ti permette anche di imparare mano a mano. A mio parere, in Guerrilla impariamo molto dalla pubblicazione di ogni gioco. Abbiamo un processo di valutazione a posteriori, per analizzare cosa abbiamo fatto bene e cosa meno bene, coinvolgiamo tutti e cerchiamo di capire come migliorare in ogni ambito. È un genere di autovalutazione che aiuta molto, se vuoi crescere come studio.
Spesso, “da fuori”, per un appassionato di videogiochi, non è scontato capire a cosa corrispondano i titoli delle varie figure del settore che appaiono durante il ciclo promozionale. Puoi spiegare brevemente a chi ci legge cosa comporta la tua carica?
Dunque… sono responsabile per tutto ciò che ha a che vedere con la produzione e la riuscita del progetto. È mia responsabilità che il gioco esca, diciamo. Mi occupo molto di pianificazione, cercando di mettere assieme un piano per raggiungere la conclusione dei lavori. Poi c'è il lato della pubblicazione, quindi sono sempre in contatto con il publisher, cercando di mantenerlo aggiornato sullo stato dei lavori e di tenere sempre aperti i canali di comunicazione. Poi, dato che io sono anche parte della dirigenza di Guerrilla, c'è anche il lavoro per cercare di far funzionare le cose, costruire un buon team, che sappia lavorare in maniera coesa, ma c'è anche lo sforzo per avere una visione condivisa e chiara per il futuro dell'azienda, verso cui spingere tutti assieme. Quindi c'è anche una parte di lavoro che è meno focalizzata sul progetto specifico e più sull'attività generale dello studio.
E concedi interviste!
[ride] Certo. Anche se non direi che faccia parte dei miei ruoli principali.
Nel tuo intervento qui alla Nordic Game Conference, hai parlato di come possa essere difficile, stressante, addirittura spaventoso, decidere di lavorare su un progetto completamente inedito, cambiare del tutto direzione, dopo tanti anni passati facendo sempre le stesse cose, e ritrovarsi pieni di dubbi. Perché farlo, quindi? Perché prendersi un rischio del genere, anche considerando quanto possono costare questi progetti?
Perché penso che tutti coloro che lavorano in Guerrilla siano persone molto ambiziose. Ogni giorno vanno in ufficio cariche di voglia d'esplorare e di mettersi alla prova sul piano creativo. Se continui a fare le stesse cose per troppo a lungo, non ti stai più mettendo alla prova. E poi è molto divertente – non sempre, ma lo è – imparare cose nuove, esplorare cose nuove, provare a vedere se sei in grado di fare qualcosa meglio di come l'hanno fatta gli altri. Credo sia parte del DNA di chi lavora in Guerrilla.
In parte, la cosa nasce anche dal contesto: esce un nuovo hardware, vuoi vedere cosa puoi combinarci. Quando siamo passati da PlayStation 3 a PlayStation 4, erano tutti esaltati per il balzo in termini di memoria, per la nuova tecnologia e quel che ti permetteva di fare. Credo sia una cosa che caratterizza molto il nostro settore: abbracciamo l'avanzamento tecnologico come qualcosa di positivo, che ci ispira dal punto di vista creativo. C'è sempre la voglia di provare a migliorare questo e quell'aspetto… aumentare la draw distance, migliorare gli effetti di riflessione… Onestamente non richiede sforzo, il desiderio di mettersi alla prova e provare a fare sempre meglio è innato.
Sentendoti parlare, mi sono venuti in mente certi studi che lavorano magari per vent'anni consecutivi sullo stesso gioco di calcio… non si stufano?
[Ride] Non lo so, ma mi verrebbe da dire di sì. Di sicuro richiede una grande passione e, va detto, se c'è una cosa che amo di questo settore è il fatto che veramente chiunque emana passione per il proprio lavoro. E comunque ogni studio, ogni team ha la sua specializzazione, ha degli ambiti in cui eccelle e nei quali trova grande interesse.
C'è anche la necessità di far quadrare le cose. Quando creare una nuova IP e una nuova tecnologia richiede tutto quel tempo e quel lavoro, poi ha senso provare a capitalizzare su quanto fatto. E anche per questo che si ragiona sempre in termini di trilogie… non puoi ogni volta impiegare sette anni per creare una nuova IP.
No, non con team di quelle dimensioni. O forse sì, si potrebbe anche. Horizon: Zero Dawn ha riscosso un grande successo… se va sempre così… [ride]
È il vostro gioco di maggior successo?
Sì, di gran lunga.
Durante lo sviluppo, avete mai osato pensare che avrebbe potuto ottenere un risultato del genere?
No, non a questi livelli. A un certo punto eravamo convinti che avrebbe avuto successo, ma è andato ben oltre le nostre aspettative. 7,6 milioni di copie in un anno, per una nuova IP, è davvero notevole. Onestamente non speravo e non mi aspettavo che arrivasse un risultato simile, sarei stata molto contenta di ben meno.
Quando intervisto donne cerco di evitare le classiche domande su com'è essere donna nel settore… do per scontato che sia stremante sentirsele fare a ripetizione…
Abbastanza. [ride]
… ma c'è un aspetto di cui hai parlato nel tuo intervento, il fatto che continua ad esserci la convinzione che un gioco con una protagonista femminile sia rischioso, non possa vendere. Ancora oggi? Nonostante le numerose IP di successo con protagoniste femminili, non solo nei videogiochi ma anche al cinema?
Sì. Però credo che le cose stiano cambiando e lo stiano facendo, come dici tu, anche in altri ambiti, come quello cinematografico. Ed è una bella cosa, è bello vedere maggiore diversità, mi fa molto piacere.
Ma siete partiti con l'intenzione di sfidare questa convinzione?
No. Ce lo chiedono spesso. Siamo olandesi, abbiamo sede ad Amsterdam e penso che in Olanda ci sia grande uguaglianza, da parecchio tempo. E credo che questo abbia giocato un ruolo importante, nella cosa. Quando il nostro game director ha proposto Horizon… l’hai visto, durante il mio intervento qui, ho mostrato il video: la protagonista era una donna fin dall'idea iniziale. Non ci abbiamo neanche pensato. A noi interessava solo creare un personaggio che funzionasse. È una cosa che ci ha sempre messi in difficoltà, con Killzone: c'erano gli Helghast, i cattivi, iconici, impressi nella memoria di tutti, e c'erano i protagonisti dei diversi episodi, che nessuno si ricorda. Ogni volta cercavamo di ideare un nuovo eroe di spessore, che potesse essere iconico, rimanere nel cuore dei giocatori… il gioco usciva e tutti parlavano solo degli Helghast. Per Horizon, era veramente il nostro obiettivo: un personaggio principale forte, interessante, con cui la gente potesse identificarsi, che sentisse vicino. Ma non abbiamo mai ragionato sul sesso, solo sul cercare di rendere Aloy interessante, un bel personaggio.
Fra l'altro, non credo che sia il genere a cui appartiene a definirla come personaggio. È il carattere, il senso dell'umorismo, l'intelligenza… sono questi i fattori che la rendono un personaggio forte, non il suo essere un uomo o una donna.
Diciamo che sarebbe bello arrivare a una situazione in cui nessuno faccia questo genere di domande o parli del fatto che è una femmina, ma solo del personaggio che è…
Esattamente. Non che sia un problema rispondere a questa domanda, che per altro ci fanno spesso.
Forse è anche una questione culturale… dipende dalla provenienza delle persone…
Sì, diciamo che nei paesi nordici non mi capita di parlare molto di questi aspetti. Ma insomma, dipende. E in generale penso che sia comunque positivo vedere sempre più questo genere di personaggi e di temi.
E anche se non è vostra intenzione dire qualcosa al riguardo, anche se è involontario, se c'è un effetto positivo, perché no?
Certo. Anzi, ancora meglio!
Qualche tempo fa sei entrata a far parte dell'Advisory Board della Game Developers Conference… di cosa si tratta? Come mai hai deciso di unirti?
Fondamentalmente, è un gruppo di veterani del settore che seleziona i contenuti su cui costruire la fiera. Analizziamo le proposte degli aspiranti speaker e cerchiamo di comporre un programma che sia interessante, rilevante e anche vario, per evitare di ritrovarci con dieci interventi sullo stesso tema. Per me è stato un grande onore. Adoro la GDC, è il più grande evento del suo tipo al mondo e per una settimana sembra che San Francisco, soprattutto nella zona centrale, sia stata invasa e conquistata dagli sviluppatori di videogiochi. Ed è sempre bello vedere quanto siano tutti pronti a condividere ciò che hanno imparato, ma anche i propri errori. Si impara molto dall'ascoltare gli altri. E torno sempre ispirata, carica di idee nuove. Sono molto contenta che abbiano voluto coinvolgermi.
Beh, ieri Josef Fares è intervenuto qui al Nordic Game. Lui viene dal cinema e ha detto che non tornerebbe mai indietro, perché nonostante il cinema sia un settore per molti versi assai più avanzato, consolidato e “funzionante”, la gente è troppo più bella nei videogiochi.
[ride] Buono a sapersi! Non ho mai lavorato nel cinema, quindi non saprei, ma sono d'accordissimo sul fatto che le persone che lavorano nei videogiochi siano davvero ottime. C'è un senso di comunità che a volte ti sembra davvero… importante. Capita spesso di trovarti in concorrenza diretta con alcune persone, perché si lavora sullo stesso genere di gioco, ma i rapporti rimangono sempre eccellenti, ci si parla, si parla delle sfide condivise. E poi lo sviluppo di videogiochi è per molti versi un'attività talmente “specifica” che non ti metti certo a rubare idee o tecnologie.
Devo dire che anche io, pur sentendomi per molti versi come un “estraneo”, da giornalista, percepisco queste vibrazioni positive. Certo, uno stronzo lo trovi dappertutto, ma in generale sono tutti così accoglienti, tutti pronti ad aiutare, tutti amichevoli e socievoli…
Probabilmente c’entra anche il fatto che si tratta di un settore ancora molto giovane, soprattutto se lo paragoni al cinema. Probabilmente abbiamo ancora molto da imparare.
Non imparate troppo!