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Post Mortem #11: La nascita di Robotron 2084

Post Mortem #11: La nascita di Robotron 2084

Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.

Eugene Jarvis è un simpatico signore di una certa età, ancora oggi impegnato a lavorare in quel che rimane della scena arcade, che lo scorso marzo si è presentato sul palco di una fra le sale principali della GDC 2014 accompagnato da un cabinato di Robotron 2084. Il suo intervento faceva parte del filone dei Classic Post Mortem e lo vedeva ovviamente intento a chiacchierare, tanti anni dopo, di quella pietra miliare lì, che nei minuti precedenti all'inizio della conferenza se ne stava a lato, accesa, ad emettere suoni lancinanti e lasciarsi giocare da qualche temerario. Quando Jarvis prende la parola, mostra subito il suo spirito piacione attaccando a sparar battute, cose tipo: "Oggi impieghi tre anni a sviluppare un gioco e se viene fuori una schifezza è sempre colpa di qualcun altro, è sempre colpa di quelli vestiti in giacca e cravatta. Noi Robotron l'abbiamo sviluppato in due persone e in sei mesi" Ma soprattutto il saluto agli sviluppatori di Candy Crush Saga che festeggiano i milioni di dollari incassati: "Noi abbiamo fatto gli stessi soldi trent'anni fa, un quarto di dollaro alla volta." Eh, beh.

Dopo aver creato Defender e Stargate, Jarvis voleva subito dedicarsi ad altro ed era intrigato dal tema dei robot. Ma prima di proseguire, scusate, mi fermo un attimo: sono stato seduto lì in prima fila a guardare e ascoltare il signore che ha creato Defender e Robotron 2084. No, dico. Ma ci pensi? Scusate, proseguo. Su Commodore Pet, c'era un gioco intitolato Chase, che funzionava a turni e la cui grafica era composta da lettere (i robot erano dei π). In quel gioco non si sparava ai robot, bisognava fare in modo di attirarli su delle mine sparse in giro. E quella fu la prima fonte d'ispirazione.

La seconda fu Berzerk, un gioco frustrantissimo, in cui qualsiasi cosa ti uccideva. Ogni singolo elemento presente sullo schermo, se toccato, ti faceva fuori. Era il primo gioco a godere di una voce sintetizzata che apostrofava il giocatore e, secondo Jarvis, aveva un limite nel sistema di controllo, che ti costringeva a muoverti nella direzione in cui volevi sparare. Partendo da questo limite, dalla frustrazione provata giocando, Jarvis ideò l'innovazione chiave dell'utilizzo di due joystick, che avrebbe permesso di muoversi e sparare in due direzioni diverse.

La velocità di aggiornamento dello schermo, per i giochi arcade veloci ed esigenti dell'epoca, era una componente fondamentale e in questo il funzionamento "istantaneo" degli schermi CRT era perfetto. Altro che gli LCD e le decine di millisecondi di…

La velocità di aggiornamento dello schermo, per i giochi arcade veloci ed esigenti dell'epoca, era una componente fondamentale e in questo il funzionamento "istantaneo" degli schermi CRT era perfetto. Altro che gli LCD e le decine di millisecondi di ritardo causate dai mille filtri ed effetti.

Su questa base applicò una serie di idee che trovava interessanti (per esempio l'inserimento anche di personaggi umani nel gioco, oltre ai nemici da abbattere) e prese a lavorare sul software e l'hardware usati per Defender, applicando tutta una serie di innovazioni tecnologiche. Per esempio l'utilizzo di un'architettura bitmap, che per l'epoca era una novità, o di uno fra i primi coprocessori grafici (GPU), capace di viaggiare a un megapixel al secondo. Come al solito, quando si parla di giochi che hanno fatto la storia, oggi i numeri fanno sorridere.

Volete un altro numero? La componente sonora del gioco dovette accontentarsi di 128 byte di RAM. E il tutto veniva generato sul momento, tramite software, in un sistema monofonico: Robotron 2084 poteva produrre un solo suono per volta. Infatti, la gestione dell'audio venne organizzata per priorità, sulla base di ciò che poteva o non poteva essere interrotto, per fare in modo che venisse sempre generato il suono che era importante in quel dato momento. Il tutto impostato a volume 11, una brutalità spacca timpani che ho ben sperimentato lì in prima fila e che permise a Robotron 2084 di farsi notare senza problemi nel bel mezzo del delirio auditivo che erano le sale giochi di una volta.

E poi c'era la storia, magari non originalissima (anche se stiamo parlando di tanti anni fa), ma certo più sviluppata di quanto normalmente ci si aspetti dai "giochini" di quei tempi. Robotron 2084 parlava di noi e di quanto facciamo schifo. Del modo in cui l'evoluzione tecnologica va di pari passo con l'inquinamento e la distruzione, di come viene dettata dal nostro essere creature pigre, grasse e svogliate. Nel mondo di Robotron 2084, abbiamo costruito i robot per avere dei lavoratori inarrestabili, infaticabili, che non si lamentano mai. Peccato che i robot si evolvano secondo la legge di Moore: mentre noi umani seguiamo la selezione naturale, mutiamo lentamente e ci mettiamo milioni di anni per sviluppare un sesto dito tramite cui usare comodamente il pad Xbox, i robot diventano subito intelligentissimi. E poi arriva il momento chiave: l'umanità trasferisce la propria coscienza nel cloud, perché vuole vivere per sempre, ma le macchine decidono che siamo inefficienti, inutili, superflui, sprechiamo banda, dobbiamo essere eliminati. Gosh!

Jarvis ha anche raccontato che, a livello tecnico, riuscire a centrare l'obiettivo dei 60hz fu una faticaccia. Peggio che portar via dal palco il cabinato.

Jarvis ha anche raccontato che, a livello tecnico, riuscire a centrare l'obiettivo dei 60hz fu una faticaccia. Peggio che portar via dal palco il cabinato.

I giochi arcade dell'epoca non avevano le risorse incredibili che oggi sono a disposizione dei grossi sviluppatori e bisognava puntare tutto sul gameplay, sulle meccaniche, sulla sfida e sulla difficoltà. Bisognava creare situazioni in cui il cosiddetto giocatore eroico sarebbe stato in grado di giocare per ore, cavalcando il ciclo che alternava picchi di sfida tostissima e fasi di relax. Dare ai migliori l'opportunità di compiere imprese leggendarie alimentava il ciclo di pubblicità "autosostenuta", perché quei personaggi sarebbero diventati famosi, sarebbero finiti sui giornali e avrebbero ispirato migliaia di giocatori a infilare monete nei cabinati. Molti sviluppatori non coglievano davvero questo aspetto e realizzavano giochi la cui curva di difficoltà era in costante salita: primo livello facile, secondo livello medio, terzo livello morte. E così non funzionava.

Un'altra differenza fra quell'epoca e oggi, secondo Jarvis, sta nel fatto che allora non si ragionava in stile Hollywood come a volte si fa adesso, scrivendo e pianificando tutto in partenza e poi costruendo il gioco. È un modello che funziona bene per i seguiti e per i generi consolidati, ma quanto stai inventando nuovi generi, stai sperimentando o sei un piccolo sviluppatore, funziona molto meglio il design interattivo, che parte dal basso: crea, prova, migliora, ripeti. Robotron 2084 venne interamente creato da due persone (Eugene Jarvis e Larry DeMar) e aveva per questo un design "programmatore-centrico". Fecero tutto loro, grafica compresa, e chiaramente, "se fa tutto un programmatore, sembra tutto un algoritmo."

"I programmatori sono dei maniaci del controllo e per loro l'esperienza massima di sviluppo sta nello scriversi il proprio linguaggio di programmazione e controllare tutto quanto."

"I programmatori sono dei maniaci del controllo e per loro l'esperienza massima di sviluppo sta nello scriversi il proprio linguaggio di programmazione e controllare tutto quanto."

Fra gli obiettivi per Robotron 2084 c'era l'idea di creare meccaniche di gioco liberatorie, che permettessero, come detto, di muoversi e sparare contemporaneamente e in maniera indipendente. Al contrario di quanto accadeva in un gioco come Berzerk, in Robotron 2084 doveva essere possibile scappare e sparare. E poi c'era quel desiderio di inserire un elemento umano, una variabile differente rispetto al semplice schermo intasato di nemici. Da qui l'idea dell'obiettivo di salvare l'ultima famiglia di esseri umani rimasti in vita. Sul fronte dei cattivi, ovviamente, c'erano i Robotron, delle specie di Terminator pre-Cameron, macchine potenti e, come raccontava la storia del gioco, intelligentissime... anche se ovviamente quelli che si incontravano nei primi livelli erano dei cretini completi. Ma del resto era un paradosso inevitabile, se si voleva garantire una progressione della difficoltà degna di questo nome.

Nonostante l'idea di partenza del separare sparo e movimento, il primo prototipo di Robotron 2084 non prevedeva un'arma da fuoco, ma fu subito evidente che la cosa non funzionava: era troppo passivo aggressivo. E allora via con la tecnica di sparo innovativa e con tutti i problemi di bilanciamento che comportava, la necessità di evitare che il giocatore diventasse troppo forte inserendo sempre più nemici (per un massimo di 128) e limitando il volume di fuoco a quattro spari attivi in contemporanea. Ma come dice sempre Noah Falstein (geniale creatore di giochi come Koronis Rift e le due avventure grafiche di Indiana Jones), è fondamentale anche evitare il VOID (Varied Only In Difficulty) e bisognava quindi aggiungere elementi per rendere più dinamico il gioco.

Il cattivissimo Berzerk.

Il cattivissimo Berzerk.

Da questo pensiero nasce la varietà di Robotron 2084, il suo presentare nemici diversi con personalità, movimenti, attacchi, difese, proiettili unici. E, di nuovo, la presenza umana, l'idea che potesse essere divertente non solo abbattere i nemici e sfuggir loro, ma anche salvare i sopravvissuti, cosa che andava a generare una sempre efficace dinamica di rischio e ricompensa. E i vari nemici. Gli Hulk (ispirati all'Hulk dei fumetti ma anche a Evil Otto di Berzerk), indistruttibili e fastidiosi, che sceglievano a caso la loro preda fra il giocatore e i sopravvissuti e il cui percorso poteva essere deviato a colpi d'arma da fuoco. Gli Enforcer, nati dal fatto che Jarvis si era stancato di creare animazioni di camminata e voleva "rilassarsi" con una creatura che non camminava.

E ancora gli Spawner, pensati per risolvere il problema di "ingorgo" che gravava sulle versioni iniziali del gioco, troppo dense di nemici, ottenendo così un nuovo elemento tattico, dato che abbattere gli Spawner garantiva l'uccisione di un certo numero di Enforcer. Di fondo, la creazione dei nemici arrivava dal tempo speso inventando modi divertenti per ammazzare il giocatore, fra proiettili che "intuivano" il percorso del protagonista e avversari come gli Spark, dalla velocità apparentemente casuale e in grado di scivolare lungo il muro. La loro velocità, in realtà, era regolata da un algoritmo che la faceva aumentare quando ci si allontanava da loro, creando una dinamica in cui per vincere era consigliabile andare contro l'istinto di fuggire. E poi i Brains, perché, insomma, se i Robotron sono intelligentissimi, ci devono essere dei Robotron che effettivamente lo sono! A chiudere il tutto, i Tank, creature dai devastanti proiettili "rimbalzanti" pensate per essere il paywall finale, con una I.A. fatta di valori messi a caso, per farli sembrare più intelligenti.

E insomma, Robotron 2084 fu un fantastico miscuglio di trovate geniali, grande ispirazione, voglia di innovare e bug giusti nel posto giusto e al momento giusto. Il più famoso è il bug di Mickey, un errore in base al quale un'ondata di Brain, invece di dirigersi verso l'umano più vicino, andava a cercare Mickey, uno dei sopravvissuti. Un errore di programmazione che diventa elemento tattico in grado di premiare i temerari più abili, in grado di tenere in vita tanto Mickey quanto almeno un Brain, per poter gestire in scioltezza ondate su ondate. E del resto, Eugene Jarvis lo dice chiaramente: "Spesso, alcuni fra gli elementi più riusciti di un gioco nascono da dei bug e in fondo è meglio essere fortunato coi bug che bravo a evitarli. Devi essere abbastanza bravo da far funzionare il gioco ma avere bug a sufficienza perché ne nasca un'esperienza ricca." Un po' scherza, ma mica tanto.

Old! #76 – Agosto 2004

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Librodrome #55 – Ico, una favola dell'era digitale

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