Suspiria, o della supremazia del rito sul mito secondo Guadagnino
Odio la natura. Anzi, la detesto. Madre natura è la mia nemica numero uno, e quella volta che un prometeico Mr. Burns decise di oscurare il sole, tifai per lui dall’inizio alla fine. In effetti, lo sottoscrivo anche quando sostiene che:
Chiaramente, quando parlo di natura faccio riferimento alla convenzione linguistica classica del termine; a un generico concetto di “non sofisticazione”, ché a spostare la faccenda su un piano più ampio, trovo che un televisore sia naturale quanto il miele delle api. Ma non è questo il punto.
Il punto è che, prima di guardare il nuovo Suspiria, non mi ero mai fermato a riflettere su quanto questa mia visione - anzi, questa mia paura - di tutto ciò che è incontaminato sia in parte frutto della dimensione maschile. Il che non significa che tutti i ragazzi là fuori siano fatti alla mia maniera (grazie a Dio); eppure, è innegabile che all’uomo sia negata giocoforza una delle esperienze più antiche, violente e ancestrali di tutte: il parto.
Ed è proprio di natura, parto e maternità che parla il nuovo film diretto da Luca Guadagnino e scritto da David Kajganich, già autore per il regista siciliano di A Bigger Splash, oltre che recentemente coinvolto nella serie The Terror e nella rilettura di Pet Sematary - Cimitero vivente. Parla del patto di sangue che lega le donne a misteri dai quali l’uomo è escluso.
Le componenti della Markos Tanz Company sono menadi che rivivono i riti eleusini attraverso le loro performance, danzano in preda a un’estasi cannibale che rifonda i miti di Dioniso Zagreo, di Persefone e Demetra. Proprio nelle due dee della fertilità si riflettono rispettivamente la Susie Bannion di Dakota Johnson e, in sovrapposizione, la Madame Blanc di Tilda Swinton, assieme alla madre morente interpretata da Malgorzata Bela, che mica per caso presidia un campo di granturco (credo). Ed è sulla sofferenza di una madre che la figlia inizia a muoversi, per sostituirla e perpetrare quel ciclo eterno di morte e rinascita, riflesso anche dalle diverse generazioni di donne che occupano il convitto della scuola di danza.
Piove sempre, nel film, e abbondantemente. E quando non piove, nevica. Una presenza così fitta dell’elemento acqua rimanda - di nuovo - al tema della fecondità, ma soprattutto serve una messa in scena clamorosa. Guadagnino riprende il discorso sull’estetica esattamente da dove lo aveva interrotto con Chiamami col tuo nome (da cui si porta dietro anche il direttore della fotografia, Sayombhu Mukdeeprom), dimostrandosi uno fra i migliori cineasti in circolazione quando si tratta di rappresentare la dialettica tra architettura umana e natura.
Come nel film precedente, molti tra gli spazi esterni sono incorniciati da finestre, un sacco di finestre, che cercano di razionalizzare geometricamente il caos. In effetti, nell’impianto visivo generale, ciascuno spazio ne contiene un altro, proprio come una madre porta in grembo i figli. La scuola di danza, ad esempio, è un organismo, un luogo/personaggio che nasconde altri spazi praticati dalla congrega.
Scalando, anche la magione è a sua volta incastonata nel cuore della Berlino del 1977. La stessa Berlino della trilogia di Bowie – il musicista viene evocato di frequente nel corso del film, attraverso poster, suoni e persino passi di danza – che sotto la pioggia incessante si agita tra la guerra fredda e i fantasmi del nazismo, tra Est e Ovest.
Eppure, se lo chiedete a me non siamo di fronte al cliché dell’horror sociale, né troppo vicini al Suspiria originale di Argento, dal quale Guadagnino ha preso fiato e suggestioni prima di andarsene per i fatti suoi. Oltre all’innesco e a qualche giro di trama, i due film condividono la mitologia fighissima delle Tre Madri, la complessità, la potenza e pure l’anno 1977, ma restano robe diverse per esito e, boh, scelte di linguaggio? Qui siamo più dalle parti di un certo perturbante alla Lynch e gli echi politici, per quanto presenti, sono sempre al servizio del tema principale. Agevolano, ad esempio, la costruzione dell’unico personaggio maschile di rilievo, Il dottor Josef Klemperer.
L’anziano psicoanalista rifiuta fermamente l’apparato mistico che emerge dai racconti della sua giovane paziente, Patricia (Chloë Grace Moretz). E quando viene messo alle strette, utilizza gli strumenti della propria disciplina per cercare di domarlo con spiegazioni razionali, sostituendo alla stregoneria il terrorismo politico, come si evince dalla conversazione tra l’uomo e la danzatrice Sara (Mia Goth).
Nel confronto tra i sessi che attraversa tutto il film, e che si consuma anche e soprattutto sul piano linguistico, Klemperer incarna il punto di vista dell’uomo che analizza i meccanismi tribali attraverso la psicologia di massa. Che cerca di strutturare l’inconscio, di giustificarne i simboli negando loro qualsiasi dimensione magica e sciamanica a favore del metodo scientifico. Non è un caso che durante uno scambio salti fuori il nome di Lacan, né che il nome del personaggio - mi dicono dalla regia - rimandi al filologo tedesco di origini ebraiche Victor Klemperer, che si dedicò allo studio della lingua quotidiana parlata durante il nazismo ponendo particolare attenzione all’utilizzo propagandistico della parola “Volk”, nella doppia valenza di “popolo”, ma anche di “folklore”.
Le donne di Suspiria, di contro, si esprimono soprattutto attraverso la danza, celebrano il rito invece del mito, punteggiando lo spazio con i movimenti del corpo, fino a portare sulla scena un vero e proprio testo, Volk (grada caso), che per quanto poggiato su basi geometriche e meccaniche, resta pur sempre un artefatto composto da carne, ossa, sudore e liquidi.
In questa dialettica, la posizione di Guadagnino, da messa in scena, è tutt’altro che imparziale: il lavoro sul montaggio e sui frame, sullo spazio e sul suono, fa pendant con la danza. La esalta, arrivando a suggerire un parallelismo metalinguistico tra il codice della performance – spettacolo a se stante che varrebbe da solo il giro di giostra - e quello cinematografico.
Soprattutto, però, Suspiria è bellissimo da guardare. Bellissimo quando gira piano, con quella sua cura – a volte persino troppo compiaciuta, è vero - per le scenografie, i costumi e le musiche (firmate da Thom Yorke). Ancora meglio quando accelera e se la batte, lasciando che tutti gli spazi, con i loro giochi di luce e le geometrie, vengano scomposti dalla pioggia, dal vento e dalla danza.
Il movimento e l’azione pura permettono al film di raggiungere il culmine del proprio discorso, facendo trionfare la dimensione matriarcale su quella patriarcale, il ritmo del rito sulla narrazione lineare del mito. Secondo la tesi esposta da Kajganich e Guadagnino, la natura, col suo caos ancestrale, spazza via ogni logica: sarà per quello che mi sta tanto sul cazzo?
Ho guardato Suspiria il primo giorno dell’anno, tanto per entrare subito in ritmo partita. Purtroppo, il doppiaggio in italiano manda in vacca tutta la faccenda che Susie è un’americana dell’Ohio che frequenta una scuola tedesca dove si parla pure francese ma, ehi, o così o nada. Vedrò di rimediare. Ah, colpo di scena: il personaggio di Klemperer - punto di vista maschile eccetera eccetera - è in realtà interpretato da una donna, di nuovo Tilda Swinton, irriconoscibile dietro il trucco e il nom de plume di Lutz Ebersdorf. In pratica, dietro all’omonimo del filologo che ha dedicato la vita allo studio del “volk” e al personaggio che ha creato la coreografia Volk c’è la stessa attrice. Potrei entrare nel merito ma è tardi, sono stanco e mi fermo qui. Meglio per me, ma soprattutto per voi.