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The Untouchables per C=64 non può essere corrotto neanche dal tempo | Racconti dall'ospizio

The Untouchables per C=64 non può essere corrotto neanche dal tempo | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

La premessa d’obbligo è che non sono mai stato un nostalgico. In nessun campo.

Quando si parla degli anime (per noi vecchietti: “Cartoni Animati Giapponesi”) dell’infanzia, la prima cosa che mi viene alla mente non è l’epica o l’eroismo ma le animazioni in passo due, le intercalazioni subappaltate a qualche studio con sede in uno scantinato a Taiwan, l’anatomia discutibile, il doppiaggio italiano quasi sempre risibile e sigle che già all’epoca mi sembravano dozzinali.

Insomma, non cambierei mai un One Punch Man (S1) per un “Kenshiro e Orange Road può restarsene nelle nebbie del passato, che mi riguardo Bakemonogatari. Se salvo qualcosa, è perché lo posso riguardare ancora oggi con immutato piacere, tipo Lupin III o Lamù, ma L’Uomo Tigre, i Gatchaman, le Time Bokan stanno ben custoditi nello scrigno dei ricordi.

Che non escano.

In musica, in questi anni che hanno rivalutato gli Ottanta, stanno finendo i Novanta e a breve cominceremo a rivalutare i successivi, a chi mi confronta i The Cure o i Queen con “la robaccia che ascoltano i ragazzini adesso”, io ricordo l’esistenza di Festivalbar, DiscoMix, I Righeira e Jovanotti prima di essere Lorenzo (o anche dopo). Quasi nessuno mi ringrazia, per questo.

Per i videogiochi è più facile, i puristi che se la menano con “una volta con pochi byte ti costruivano un mondo” e “facile adesso fare le colonne sonore orchestrali e il doppiaggio” sono più o meno tanti quanto quelli quelli che glorificano il cinema muto e, assieme a Charlie Chaplin e Buster Keaton, ti impongono di pupparti anche tutta la produzione Keystone. Con accompagnamento di pianola.

La maggioranza è fortunatamente sincera nell’ammettere che ciò che apprezza è l’ingegno messo nelle soluzioni tecniche, mentre il risultato finale non è (più) “il gioco della vita” ma un passatempo nostalgico.
Se ci giochi, è per ricordare il divertimento passato, ma sai che non può reggere il confronto con i suoi epigoni.

Però ammetto che qua un po’ ho pianto.

Insomma, tutta questa premessa per dire che nel momento in cui ho lanciato The Untouchables sull’emulatore di turno (grazie, amici di VICE, siete dei grandi), una fra le tante licenze cinematografiche che Ocean prese in mano e trasformò in un pugno di pixel, sono stato preso in contropiede.

Il confronto forse lo perde, ma preso di peso e sbattuto su uno smartphone come instant game, farebbe ancora la sua porca figura.

Come molti giochi del tempo, The Untouchables è un “multievento”. Ogni livello appartiene a una tipologia di gioco diverso e quasi ogni livello è “tirato al limite”.

Il primo livello, caccia alle prove.

Prendendosi qualche inevitabile licenza, il videogioco ripropone la trama del film: dopo la schermata introduttiva, ci porta in un magazzino infestato di gangster contrabbandieri, a tirar fuori prove dai cadaveri dei nemici abbattuti. Controlliamo il protagonista del film, l’Eliot Ness interpretato da un Kevin Costner all’apice della carriera, in un platform shooter mono-ambiente in cui dobbiamo seccare almeno dieci gangster vestiti di bianco per raccogliere il 100% di prove sul contrabbando di alcoolici. Al tempo, il gioco venne molto criticato per questo primo livello ritenuto, parecchio difficile: non solo i nemici arrivavano a sciami ma il tempo per la raccolta era limitato e la difficoltà aumentava progressivamente: raggiunto il 50%, non bastava più un colpo per seccare gli avversari, ce ne volevano due; superato il 70%, ce ne volevano tre.

In realtà, non lo ricordo così frustrante: rispetto ai livelli successivi, questo è senza dubbio il più vario, oltre ai “portaordini” biancovestiti (come lo è nel film Frank Nitti, il braccio destro di Al Capone), ci sono i gangster verdi “vettovaglie”, che rilasciano bonus energetici o procrastinano il conto alla rovescia al game over, e i gangster blu “munizioni”, che permettevano di raccogliere, nelle ovvie custodie di violino, armi più potenti o a tiro più rapido. Insomma, evitando di correre solo dietro al bersaglio immediato ma andando a cercarsi i bonus, il livello lo si superava.

I due livelli successivi, oltre ad essere decisamente più semplici, grazie al fatto che si aveva a disposizione l’intera “squadra” e, quindi, energie moltiplicate per quattro, erano i miei preferiti in assoluto. Il Commodore 64, viste le sue limitazioni tecniche, aveva strappato alla sala giochi qualche shooter con visuale oggettiva e mirino mobile, ma quasi nessuno era divertente come i livelli 2 e 3 di The Untouchables.

Assalto alla diligenza versione proibizionismo.

Il primo reinterpretava lo scontro a fuoco al confine del Canada: i nostri eroi affrontavano i gangster asserragliati nei trasporti e dietro le casse di alcoolici. Rotolando a terra, evitavi i proiettili e ti portavi in linea di tiro, un mirino nella parte superiore dello schermo mostrava cosa inquadrava la tua arma. Alternare rotolata e fuoco diventava rapidamente un riflesso automatico, come sparare a vuoto per vedere dove puntavi, prima di controllare nel mirino.

Il secondo lo adoravo a tal punto che spesso mi auto-infiggevo il game over per poterci rigiocare. I vicoli di Chicago che conducevano alla stazione erano diventati una trappola mortale (questo, nel film, non c’era) da cui uscire a colpi di doppietta in faccia. Il mirino si muoveva libero per lo schermo, il personaggio si sporgeva al muro per sparare e poi si ritirava per ricaricare i due colpi. Sparo, mi riparo, ricarico, esco già mirando il prossimo bersaglio cercando di perdere meno tempo possibile. Anni dopo, un Time Crisis a caso avrebbe costruito la sua fortuna su questa sequenza.

Niente del genere era mai arrivato sugli schermi domestici, fino a quel momento.

“Time Crisis” chi?

Quarto e quinto livello furono e sono tutt’ora qualcosa di inspiegabile. Il quarto livello, dopo un platform e due tirassegni, proponeva classico shoot-em up a scorrimento verticale, simile nella grafica al grande classico “Into the Eagle’s Nest”, con associata la missione che da quel momento avrei imparato a odiare per il resto della mia carriera videoludica.

La fottuta “missione di scorta”.

Devo dire che, rispetto a quelle dietro cui bestemmiai e continuo a bestemmiare negli anni e giochi a venire, almeno questa aveva un pregio: il “protetto”, la carrozzina della scena della stazione, citazione sfacciata di una carrozzina ben più famosa (“L’occhio della madre!!” n.d. Prof. Guidobaldo Maria Riccardelli"), almeno seguiva un percorso lineare e prevedibile, invece di andarsi a infilare come un deficiente nelle fauci delle orde di nemici.

Ciononostante, ammetto di aver spesso resettato il livello crivellando io stesso la maledetta carrozzina, quando era evidente che in nessun modo saremmo arrivati al fondo.

Finito (finalmente) il livello, si passava al quinto: visuale in soggettiva e sei secondi per centrare in testa il gangster che si fa scudo del contabile di Al Capone nella scena che consacra Andy Garcia quale “bassista carismatico” ((c) e (tm) DocManhattan) del film.

Peccato che un joystick economico non fosse la mano ferma della “recluta badass” Giuseppe Petri/Stone e che, per quanto mi riguarda, chiunque sia riuscito a passare la missione senza trainer mente.

Vi ricorda qualcosa, eh? Confessate, infami!!

E se fallivi il tiro: ricominciavi… dal quarto livello…

(CARROZZINA DI MRRRRRRDAAAAAAAAA!!!!!)

Il sesto livello, per quelli che avevano ancora joystick integri, era di nuovo un divertente shooter in soggettiva, in cui dovevamo centrare Frank Nitti in fuga sui tetti fino alla sua caduta verso l’oblio e la nostra ascesa alla vittoria, celebrata, come tutte quelle dei livelli precedenti, da uno stringato titolo sul quotidiano “Chicago Diabolical”.

Ammetto che anche in questo caso preferisco gli almeno quindici minuti di epilogo recitato con cui ogni gioco pagato bei soldini mi conferma che sono il più crasto di sempre, grazie.

Oh, son soddisfazioni!

Ma attestati di benemerenza in singolo foglio a parte, la varietà di gioco che The Untouchables mette a disposizione si contorna di tanti dettagli che dimostrano la volontà di investire in una bella produzione: la “barra dell’energia” è la foto (pixellosa) del personaggio di turno, che ad ogni danno ricevuto muta nella faccia (pixellosa) di Al Capone. Al game over, l’immagine diventa quella di un uomo con una mazza da baseball, citazione della brutale sanzione che un terrificante Robert De Niro infligge a un anonimo tirapiedi. La cornice di gioco imitava un “art decò” in stile con gli anni Trenta e piccole citazioni come le rose ripristina-energia e le custodie di violino “farcite” rendevano l’immedesimazione facile.

Forse, l’unica cosa che dopo decenni è davvero invecchiata male è la colonna sonora. Viene quasi tenerezza, nel ripensare agli sforzi che il SID era obbligato a fare nel tentativo di far sembrare un accozzaglia di squittii un motivetto charleston e testimonia la grande capacità di adattamento dell’essere umano il fatto che, al tempo, mi sembrasse musica ciò che ora mi fa sanguinare le orecchie.

L’ho già detto che non sono nostalgico, vero?

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a The Irishman e al crimine, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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