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Metti il tuo nome sul tuo gioco, un talk di Bennett Foddy e Zach Gage, riportato da Stefano Talarico

Metti il tuo nome sul tuo gioco, un talk di Bennett Foddy e Zach Gage, riportato da Stefano Talarico

Negli ultimi anni, diciamo indicativamente da quando Kojima ha litigato con Konami fino a poco fa, quando Activision ha mollato a casa seicento dipendenti senza nome, è diventato evidente come “il nome” di chi lavora dietro i videogiochi sia qualcosa di complicato da gestire. Ma perché? E soprattutto, perché un nuovo sviluppatore indipendente dovrebbe mettere in primo piano il proprio nome? A queste e altre domande hanno risposto - attraverso uno speech alla GDC - Bennett Foddy e Zach Gage, sviluppatori indipendenti di lunga data che, contrariamente al fatto che hanno sempre il loro nome in bella mostra nei titoli del loro giochi, non sono dei mitomani.

Il duo ha cominciato mostrando una serie di estratti dai trailer dei giochi dell’Independent Game Festival. Il risultato è stato quello di non vedere praticamente mai il nome di uno sviluppatore, un dato che, incredibilmente, non compare neanche tra i metadati del video, né sul sito del gioco. Un’omissione che, prevedibilmente, peggiora se si prendono in esame i trailer e i siti dei giochi sviluppati da studi tripla A.

Ma, appunto, perché gli sviluppatori indipendenti non usano i loro nomi per accompagnare il loro gioco? Le motivazioni sono molteplici. Alcuni, banalmente, si vergognano dei loro nomi, dimenticandosi dell’antica arte del, ehr, nome d’arte: Lewis Carroll (Charles Lutwidge Dodgson), Slash (Saul Hudson), Helen Mirren (Helen Mironoff) sono solo alcuni fra gli esempi portati da Foddy e Gage. E sono tutti nomi scelti dai loro proprietari, per mille motivi, che sono restati per sempre. Altri sviluppatori, d’altro canto, non vogliono necessariamente essere identificati col proprio lavoro, anche perché, come ha fatto notare qualcuno durante il giro di domande, non necessariamente se ne è sempre soddisfatti e mettere il proprio nome su qualcosa di cui non si è orgogliosi può anche portarsi dietro un carico di responsabilità che non si è pronti ad affrontare; soprattutto in tempi come questi, dove internet può essere un tritacarne. Altri sviluppatori ancora non vogliono oscurare il lavoro dei loro collaboratori, “rischiando” di prendersi completamente i meriti degli altri e finendo inevitabilmente per sembrare degli stronzi egoisti. Uno fra i modi migliori per dare a tutti il giusto valore è sicuramente quello di usare credit chiari e tondi. Foddy, per esempio, ha contribuito a Ape Out, che nei primi secondi mette il giocatore davanti a dei titoli di testa espliciti, che mostrano il nome di chi ha creato il gioco, chi ha lavorato alla musica e all’aspetto visivo.

Foddy e Gage hanno aggiunto che non usare i nomi dei singoli per costruire un brand è una pratica deleterea, considerando che, secondo i dati di MobyGames, quasi tutte le aziende e le case di produzione indipendenti si sciolgono dopo aver pubblicato il primo gioco, annullando di fatto tutta la copertura stampa e quanto di buono si è detto su un prodotto o su un team di sviluppo.

Kojima ha cagato sulla scelta di Konami mettendo il suo nome all’inizio di ogni missione di Metal Gear Solid V. In generale, i nomi dei modder di videogiochi appaiono sempre in bella vista, così come accade nei titoli di testa dei film indipendenti, che citano tutti i nomi impegnati nella realizzazione di un film.

Secondo Foddy, questo è dovuto a uno standard che si è stabilito quando Atari è passata dalla realizzazione dell’hardware a quella del software. Dopo un primo periodo in cui i nomi erano in bella vista sulla copertina dei giochi, è calato l’anonimato. Certo, gli sviluppatori si divertivano a piazzare la loro firma all’interno dei giochi con degli easter egg, ma non è esattamente come vedere il proprio nome sulla copertina. Eppure, questa omissione era voluta dalle case produttrici, che non volevano vedersi scippati della loro forza lavoro da aziende rivali o, semplicemente, che non volevano che i loro sviluppatori di punta venissero convinti a lavorare altrove con un’offerta migliore.

A onor del vero, lo stesso Zach Gage era restio a mettere il proprio nome in bella vista, ma ha scoperto che per pubblicare un gioco sull’App Store è un processo inevitabile, a meno che non si abbia un publisher dietro. La cosa, comunque, ha avuto i suoi lati positivi, dal momento che Gage ha raggiunto un buon successo e, tramite la stampa e la successiva promozione, è riuscito a mettersi in contatto con nuovi colleghi e, soprattutto, a promuovere una percezione positiva del medium videoludico. In particolare, Gage e Foddy hanno evidenziato come, spesso, le persone tendano a percepire i videogiochi come qualcosa di spersonalizzato, finendo per attaccare “i dev” senza rendersi conto che stanno attaccando terribilmente il lavoro di persone appassionate, e che hanno a cuore quei lavori.

Bennett Foddy, invece, ha cominciato a mettere il suo nome sui videogiochi già da quando faceva mod, semplicemente per schernire il metodo Sid Meier: “se lo fa lui, perché non posso farlo anch’io?”… o qualcosa del genere. Anche aver visto Richard Garriott conciato da Lord British che apriva la demo di Ultima IX ha sicuramente influito sul “protagonismo” di Foddy, anche se, ultimamente, tantissimi designer si rendono protagonisti in prima persona delle loro opere indipendenti, basti pensare a Nina Freeman in Cibele o David Wreden, che narra The Beginner’s Guide. Allo stesso modo, in Getting Over It, Foddy accompagna il giocatore fino alla fine spiegandogli le sue scelte, commentando di tanto in tanto quello che è successo fino a quel momento e, in chiusura, rompe completamente la quarta parete ringraziando il giocatore. Letteralmente: alla fine del gioco, è possibile chattare con Foddy, o comunque accedere alla sua mail e scrivergli giù due righe.

In conclusione, firmare il proprio gioco serve per avvicinare di più i giocatori e i creatori, aumentando l’umanità e la consapevolezza di tutte le parti in causa.

Scrivi il tuo nome
su qualcosa che vale
mostra a te stesso
che non sei un vegetale
e per provare che si può cambiare
sposta il confine di ciò che è normale
— Lucio Battisti
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