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Zero Time Dilemma: Stancamente, ti saluto

Zero Time Dilemma: Stancamente, ti saluto

Non sono esattamente entusiasta all’idea di scrivere questa recensione. Avrò finito Zero Escape: Zero Time Dilemma nella sua completezza tre settimane or sono, e da allora ho posticipato più volte la redazione del testo. E dire che a suo tempo ero in prima linea a sbandierare ai quattro venti la bellezza del capitolo originale, anticipandone largamente l’arrivo in occidente con anteprime e commenti vari in discussioni dedicate. Nine Hours, Nine Persons, Nine Doors era un capolavoro. Non tutti lo apprezzarono, però. Dover rifare più volte gli enigmi e rivivere la stessa storia, pur se arricchita di volta in volta di piccoli dettagli risolutori, sembrava stancare, annoiare, indispettire. Eppure quella era la forza del gioco. Forza alla quale il programmatore, chissà, forse proprio per venire incontro ai gusti dei più delicati, ha cominciato a rinunciare fin dal secondo episodio, quel Virtue’s Last Reward che convinceva, ma non fino in fondo.

Zero Time Dilemma è un gioco stanco. Curato troppo bene per deludere, sia chiaro, e scritto con tale consapevolezza e diretto con tale maestria che non si può non apprezzarlo, alla lunga. Questo è un gioco che sa quello che vuole. E sa come ottenerlo. Ma ci riesce solo alla fine. Si trascina per almeno venti ore, svelando se stesso giusto all’ultimo battito di ciglia, nelle cinque ore di lettura conclusiva durante le quali, afferrati il perché e il per come di una meccanica che fino a pochi attimi prima era sembrata distorta, persino involuta, si entra nel pieno della narrazione e nelle ragioni dei personaggi.

La prima fonte di irrequietudine è l’assenza di novità. La storia è incastrata tra quanto successo in Nine Hours, Nine Persons, Nine Doors e Virtue’s Last Reward. Zero Time Dilemma sta temporalmente nel mezzo. Riunisce alcuni personaggi dell’uno e dell’altro gioco, centrifuga la grafica e lo stile registico e cerca di connettere, a suo modo riuscendoci, i tasselli del prima e del dopo. Un gioco ineluttabile nel suo dispiegarsi, quindi, confinato tra qualcosa che è stato e qualcosa che sarà, senza poter essere altrimenti, e contrito nella stessa discutibile struttura di Virtue’s Last Reward.

Ritorna infatti la famigerata progressione a radici d’albero.

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La cosa funziona per lo più così: il giocatore può scegliere di volta in volta sprazzi di storia da leggere e da risolvere, che riguardano tre gruppi distinti di personaggi. Ogni gruppo gioca contro l’altro per sopravvivere: l’eliminazione dell’uno comporta la continuità degli altri. Il tema morale sembra centrale. Ogni proposta di scelta, presentata alla fine di ciascuna mini-sequenza di storia osservata, subito dopo aver risolto il canonico rebus, spinge il giocatore a interrogarsi su cosa fare: agire contro o a favore di qualcun altro? Almeno due conseguenze sono possibili: l’una scelta porterà a un prematuro game-over o a un blocco della vicenda, in attesa di ulteriori sviluppi, l’altra all’apertura di una diramazione, con altri spaccati di storia da approfondire.

Non c’è quindi particolare consequenzialità logica: il giocatore è invitato a capire che cosa stia accadendo, provando frammenti sparsi dell’intreccio narrativo. Sottolineo il capire. Perché questo non è un gioco che permette di immedesimarsi. Non è un gioco, Zero Time Dilemma, che coinvolge realmente nelle scelte effettuate. Non c’è partecipazione. E questa è la seconda fonte di irrequietudine: dura da digerire.

Opzionata una sequenza temporale a piacere, tra quelle proposte per ciascuno dei tre gruppi, il giocatore si trova in una stanza, assiste alla scena introduttiva, segue i dialoghi e poi è chiamato a trovare una via di fuga attraverso gli oggetti nascosti e un esame delle opportunità che essi offrono. Risolto l’enigma, si può interagire con la storia, decretando attraverso la scelta compiuta il destino di una o più persone. Peccato che l’impatto emotivo sia pressoché nullo. Mi spiace per la regia, che si sforza di proporre immagini cruente, per la scrittura, sempre ficcante, e per i personaggi, che risultano mediamente credibili. Ma l’impatto è proprio nullo. Nullo perché la struttura stessa del gioco suggerisce fin da subito che non c’è in realtà alcuna vera scelta da compiere. Non c’è irreversibilità! Bisogna, infatti, per avanzare, innescare necessariamente tutte le possibili biforcazioni proposte, così da cogliere il nesso che lega le parti della vicenda e scoprire quegli elementi trasversali che serviranno a risolverla. Come può qualcuno emozionarsi sapendo che dovrà obbligatoriamente sia giocare a favore sia contro qualcun altro, salvandolo e condannandolo nel contempo? Il giocatore si arrende al gioco, a ciò che esso pretende: a volte proprio la morte di buona parte di un gruppo come fattore determinante per proseguire. Si assiste allora aridi nel cuore, vagamente curiosi nella mente.

A dispetto delle intenzioni, la questione morale nemmeno si pone.

Il giocatore, come appena spiegato, deve quindi con tanta pazienza selezionare una sequenza, sviscerarla in ogni direzione, ricaricando la stessa tante volte quanto sono le diramazioni possibili, e poi passare alla successiva. Deve osservare, annotare, cercare di capire. Assecondando un percorso senz’altro personale, dato che può andare da una parte all’altra a piacere, ma comunque vincolato da una rigida modalità di svelamento. Non si può sbagliare. Solo dare alla storia la possibilità di essere raccontata.

Si ha quindi la sensazione di essere forzati dentro un meccanismo che del giocatore non ha bisogno.

Gli enigmi, validi se presi singolarmente, sono del tutto superflui in relazione alla storia. Ecco la terza fonte di irrequietudine. Se in Nine Hours, Nine Persons, Nine Doors erano centrali e necessari allo sviluppo della narrazione, in Zero Time Dilemma non hanno senso. Sembrano esserci giusto per permettere al giocatore di fare qualcosa, ma non c’è urgenza, quasi mai, almeno: mi è capitato più volte di chiedermi cosa mai centrasse la fuga da una stanza con quanto i personaggi stavano esperendo. Ben poco in realtà.

La storia, poi, vincolata com’è ai due precedenti episodi, richiede non solo la conoscenza di quanto già successo per essere pienamente apprezzata, ma anche una certa dosa di tolleranza da parte dei veterani della serie. Se nei primi due capitoli della trilogia gli elementi narrativi più fantascientifici venivano dosati con calma e veicolati con sufficiente attenzione verso la fine dell’esperienza di gioco, senza però mai convincere del tutto, a dire il vero, qui vengono usati come pezza giustificativa fin da subito. Risultando un filo ridondanti. Gli stessi personaggi non riescono a vivere quanto accade loro intorno, a volte ci provano ma risultano ridicolmente goffi. Sono “saputi”, hanno già vissuto troppe cose, troppe bizzarrie e sanno benissimo di essere dotati di certi poteri e di avere a che fare con un certo tipo di psico-dramma per subire realmente quanto succede. Non ce la fanno. Punto. E la credibilità scema.

Venti ore passano e onestamente ti senti preso in giro. Senti che il programmatore ci ha messo tutto l’amore del mondo per dare una degna conclusione alla saga, ma è una conclusione di cui tutto sommato non c’era bisogno. Andava benissimo tutto com’era senza dover spiegare e spiegare e spiegare ancora il cosa il come e il perché degli eventi che hanno portato da Nine Hours, Nine Persons, Nine Doors a Virtue’s Last Reward. Soprattutto con questa meccanica di gioco che non lascia spazio.

Poi, per fortuna, a un certo punto ti accorgi di cosa c’è dietro, cogli il senso della frammentazione e l’idea contorta che regge il tutto, e ti incazzi pure un tantino perché è troppo palesemente tirata per i capelli la scelta registica che vela al giocatore il soggetto che sta giostrando il dramma, ma sorridi perché in qualche modo lo sviluppatore te l’ha fatta. Ti ha costretto a girare come una trottola, senza capirci niente e annoiandoti anche un po’, per poi lasciarti intendere che quel non capirci niente, quel titubare, era fondamentale ai fini di un presunto futuro migliore e che tutto, proprio tutto, era necessario così come è stato proposto. La qual cosa vuol dire anche: “Caro giocatore, lo so che quello che hai vissuto e raccontato per esempio in questa recensione è vero… e ce ne dispiace, ma così doveva essere e così è stato; però vedi che, alla fine, il nesso c’era. Alla fine ce l’abbiamo fatta a raggiungere il porto sicuro di un finale coerente”.

Solo per questo Zero Escape: Zero Time Dilemma si salva da una clamorosa bocciatura. Solo per questo si prende il bollino Frechete!, anche se di striscio, e con personale malcelato malumore. L’appassionato della serie deve procedere all’acquisto e affrontare fino in fondo questa vicenda di mezzo che giustifica a suo modo l’intera storia. Ma è come con i film horror, ogni tanto un regista ne azzecca uno e da lì si scatena una mirabolante e inutile sequela di seguiti poco ispirati. Nine Hours, Nine Persons, Nine Doors su Nintendo DS è tutto quello che serve. Il resto è lento declino esistenziale.

Ho comprato la versione retail americana di Zero Escape: Zero Time Dilemma per PS Vita. Ricordo che c’è anche per Nintendo 3DS e PC. Ci ho giocato per venticinque ore scarse, ottenendo tutto quello che si poteva ottenere, trofei inclusi. Cosa piuttosto facile, del resto, basta arrivare alla fine. La difficoltà dei (pochi) enigmi proposti è relativamente bassa. Forse un paio potranno creare qualche problema, uno per ragioni di calcolo, l’altro per la disposizione degli oggetti non esattamente chiara. Non mi sono appassionato e non ho passato notti in bianco a leggere rapito come con i precedenti capitoli. Ho anzi faticato a riaccendere la console in più di una occasione. Mestizia

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Old! #173 – Agosto 1996

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