Steins;Gate: benvenuti a Voyager!
Perché mai citare il noto programma condotto da Roberto Giacobbo nel titolo della recensione di Steins;Gate? Voyager, avete presente, no? Quell’intramontabile intrattenimento da lunedì sera con intenzioni pseudo-scientifiche, una certa sostenuta serietà per sorreggere ricerche ai confini della realtà, alieni, mostri, miti ed eroi e gli immancabili Templari che secondo il programma avrebbero a più riprese determinato il corso della storia così come ci è stata tramandata. Ecco, quello! E quindi, cosa c’entra Steins;Gate?
Beh, d’acchito, la Visual Novel firmata 5pb. e Nitroplus sembra essere il frutto della mente di chi pensa e scrive il caro programma in onda su Rai 2. Stesse linee guida: si parte dalla sicura e comprovata realtà, qualsiasi cosa si intenda per realtà, per poi insinuarsi nell’insondabile e attraente ignoto. Stessa atmosfera: seria ma non troppo, misteriosa con vaga nota ilare, leggera in salsa varietà televisivo, per stimolare l’appesantito spettatore del post week-end. Insomma, si ammicca con piacere.
E poi c’è John Titor!
Avete presente John Titor? Anzi, avete presente la mitica puntata di Voyager che parlava di Titor? E quindi di viaggi nel tempo, universi paralleli, paradossi e pure l’investigatore privato sotto mentite spoglie! Quella volta ricordo di aver pensato: “Ma sul serio parlano pure di questo!?” E ricordo anche il diffuso interesse su Internet per questo ambiguo personaggio venuto dal futuro, che spiegava qualche cosa, si lanciava in predizioni, raccontava di un mondo diverso e magari cupo... e poi scomparve per non parlare più. 2000. L’anno di Titor.
E Steins;Gate è stato distribuito in Giappone nel 2009, per Xbox 360, seguito di un tale Chaos;Head, secondo di una serie in parte slegata di capitoli arrivati attualmente a quattro, più qualche episodio parallelo, unico tra essi ad essere stato tradotto in lingua inglese e bello a tal punto, stando al giudizio di critica e pubblico, da essere paragonato ai capolavori del genere creati da Chunsoft. Insomma, 2000-2009, evidente che lo sviluppatore fosse ancora "vagamente" intrigato da John Titor, tanto da citarlo nel gioco un po’ qui e un po’ lì e da costruire sulle premesse di quanto effettivamente accaduto una vicenda tutta giapponese, che dei viaggi nel tempo fa il suo fulcro.
Nota a parte: qui analizziamo la versione del gioco per PlayStation Vita. C’è anche quella per PlayStation 3. Queste due versioni, uscite or ora in contemporanea e del tutto simili tra loro, sono state distribuite in Europa prima ancora che in America. In lingua inglese le didascalie, solo in giapponese il parlato. L’originale per Xbox 360 non è stato adattato per il nostro mercato.
Ultima premessa, promesso: cos’è una Visual (o Sound) Novel? Un tipo di gioco nel quale si legge tantissimo testo e in cui l’interazione è ridotta ai minimi termini. In realtà le Visual Novel sono anche piuttosto sfaccettate: alcune annoverano una serie più o meno accentuata di enigmi; altre sviluppano il tema della relazione sentimentale tra i personaggi; altre ancora chiedono di condurre e risolvere delle indagini; molte permettono in qualche modo di giocare. In Steins;Gate no. Scordatevelo. Non si gioca proprio per niente. Questa è una Visual Novel dura e pura, stile primi anni Novanta, in cui si può influire sugli eventi, si può determinare il finale, sembra di fare qualcosa… ma solo dopo decine, centinaia, migliaia di righe di testo da, ecco, leggere. Che sia ben chiaro: si legge. Poco altro… ma quel poco ha il suo perché!
E quel che c’è da giocare, come si gioca? Non è esattamente chiaro. Non all’inizio, almeno. Dove per inizio intendo quelle circa dieci ore di lettura ininterrotta. Il fatto è che il buon Rintaro Okabe ha un cellulare. E con questo cellulare può ricevere e-mail o telefonate. Ogni tanto arriva qualche e-mail, a volte qualcuno chiama, si legge e si risponde, oppure: si può decidere se leggere e se rispondere secondo un pattern limitato ma ampio abbastanza da creare piccole, a volte grandi, divergenze nell’intreccio proposto. Il gioco tendenzialmente non segnala se come e quando rispondere. I momenti chiave, quelli che determinano la direzione della storia, non vengono specificati (lo saranno poi, non appena completato il gioco la prima volta). Il protagonista, che funge pure da narratore, parla tra sé, sottolinea quel che pensa si dovrebbe fare, invita tra le righe a compiere l’una o l’altra scelta, ma spetta al giocatore intuire l’eventuale variante, la possibilità nascosta. Solo se è sveglio abbastanza, però! Sì, ma non di testa. Intendo proprio sveglio come desto, pronto, non mortalmente stordito dalla valanga di parole che il gioco propina.
Detto tra noi: dopo dodici ore pensavo di rispedire il gioco al mittente!
Giusto l’amore per il genere mi ha invogliato a continuare. Anche perché il contesto e i personaggi sono duri da digerire. Capiamoci, lo stile è delizioso, il tratto dei disegni graffiante quanto basta, le musiche ipnotiche il giusto, ma la caratterizzazione è a tal punto radicata nello stereotipo giapponese e a tal punto fiera di esserlo che per un occidentale medio è come entrare in un frullatore a corrente alternata (che non ho idea di cosa sia, l’ho inventato al momento). Tuttavia, c’è stereotipo e stereotipo, e quello di Steins;Gate non è il classico riciclo degli stilemi più noti, quanto un tentativo, riuscitissimo, di esaltare un certo tipo di gioventù contemporanea locale, con le sue attitudini, manie e comportamenti: uno spaccato otaku, e non solo, di per sé apprezzabile ma un tantino alieno a chi non è direttamente partecipe di quella cultura. Se non fosse per l’universalità dei sentimenti suscitati, sarebbe difficile entrare in empatia con i personaggi descritti. E in effetti a volte è proprio difficile!
Più volte mi sono trovato a pensare a quanto certe gag, magari a me appena comprensibili, potessero essere spassose per un comune ragazzo giapponese, il quale può naturalmente riconoscere se stesso o i suoi più eccentrici coetanei nei modi di essere tratteggiati da Steins;Gate. Basta prendere a esempio il protagonista, con il suo rifuggire la realtà impiegando maschere da Cattivissimo me e da fautore del caos universale. Quel che sta dietro l’atteggiamento, come l’insicurezza, il bisogno di essere accettato o riconosciuto, vale anche per noi, ma il modo di esprimere il “disagio” è nipponico dalla testa ai piedi. Nulla di male se il ricorso alla macchietta teatrale fosse dosato col contagocce, qua e là per suscitare ironia, decisamente ingombrante se, come accade, l’iperbole comportamentale viene esasperata anche nelle sequenze concitate e tese. Una perdita di ritmo assicurata e un fastidio non indifferente nella lettura.
A dispetto di ciò, i personaggi risultano coerenti e credibili. Se si entra nell’ottica di un contesto altro, con le sue regole e le sue amenità (didascalicamente spiegate da una finestra di dialogo che raccoglie tutti i termini più particolari di volta in volta utilizzati) e se si è disposti a decifrare lo strano connubio tra fisica quantistica e mondo dei fumetti, si potranno apprezzare delle personalità spiccate che riescono a bucare lo schermo, grazie anche a dialoghi ben scritti (e ben tradotti in inglese) e a uno stile narrativo capace di essere gradevole persino nei momenti di più esplicita pesantezza (quando si susseguono le spiegazioni scientifiche, oppure quando gli eventi diventano decisamente drammatici).
Ad ogni modo non sono i personaggi ad avermi persuaso della bellezza di Steins;Gate e, tutto sommato, non è stata nemmeno la storia. Rispetto a un Nine Hours, Nine Persons, Nine Doors o a un Virtue’s Last Reward, non si percepiscono elevate dosi di tensione e solo di rado si rimane incollati allo schermo avvinti dagli eventi; l’enfasi posta dallo sviluppatore sulla descrizione del contesto di riferimento e sul profilo dei personaggi rallenta il flusso narrativo: la quotidianità prevale sulla straordinarietà. Ciononostante, l’insieme appare non di rado ridondante, a tratti schizofrenico. Almeno per i miei gusti.
A vincere allora le mie ultime resistenze è stata la struttura narrativa di per sé, la meccanica soggiacente. Difficile però parlarne senza svelare particolari decisivi della storia. Proviamo così: per dieci ore circa non si capisce granché. Rispondere alle rare e-mail o alle sporadiche telefonate sembra qualcosa di fine a se stesso, si fatica a trovare uno spazio di interazione, di comprensione di sé all’interno della vicenda. I personaggi sono lì, il giocatore da tutt’altra parte. Eppure, durante questo tempo, senza esserne consapevoli, si viene preparati a quel che deve succedere. Tutto con molta calma, con fine gentilezza. Da un certo punto in poi, la molla scatta e l’immedesimazione con Rintaro Okabe si assolutizza. Se il nostro alter ego è protagonista e narratore della storia, il giocatore diventa meta-protagonista e meta-narratore di una storia ancora più grande. Okabe è l’unico tra i personaggi a poter cogliere le alterazioni spazio-temporali tra i piani della realtà proposti e sulla base delle sue esperienze si predispone a compiere delle scelte; il giocatore assurge a tramite decisionale, condiziona i percorsi, ma soprattutto narra a se stesso quel che il gioco non può dire, sa quello che nessuno può sapere: diventa omnicomprensivo.
Rintaro Okabe viaggia nel tempo, alterando e ristrutturando eventi; il giocatore carica e ricarica dal menu frammenti di partite per ascoltare ancora un dialogo, per tentare di agire in modo diverso o vedere cosa succede se aspetta a rispondere a una telefonata o a inviare una particolare e-mail. In modo autonomo, non predeterminato: non ci sono menu riassuntivi raffiguranti gli snodi principali. Ci si muove a tentoni, nel buio; il gioco non suggerisce, non spiffera. Lascia nell’oblio. Stranamente liberi: quasi inebetiti. Se cogliere i primi “finali” alternativi è facile, persino immediato, raggiungere la conclusione salvifica è materia di studio. Non si legge più, si schizza da una parte all’altra nella speranza che qualcosa succeda. E i perché si moltiplicano. Si arriva così a trenta ore di gioco in un baleno. Ma non è più gioco, e forse non lo è mai stato. È avvitamento, un rigiro esistenziale. Si rischia di non arrivare da nessuna parte! E si riflette.
Si riflette non tanto sulle conseguenze narrative, ma su quel che si sta facendo. Rintaro Okabe passa attraverso situazioni assurde e le commenta tra sé, cresce e matura, sonda aspetti anche deleteri del suo animo. All’inizio si assiste. Rapiti, direi, partecipi e pure emotivamente coinvolti. Poi si realizza di essere a nostra volta un Rintaro Okabe, che non si arrende, cerca e sonda, non si accontenta, vuole ottenere per forza quel che ritiene essere più giusto. Poco importa che lo si faccia per pura istanza di completamento, perché quel che succede, e accidenti se succede, è che a dispetto di tutto e tutti, si diventa un viaggiatore del tempo; anzi, un fissato che passa attraverso mille futili combinazioni per arrivare non si sa esattamente dove. È strano!
Strano e contorto da riferire, perché in un genere come questo, pur essendo l’interazione risicata, si entra in un vortice di variabili che non permettono un racconto logico e unidirezionale dell’esperienza vissuta. La soggettività si esalta, lasciando la controparte oggettiva pallida a interrogarsi sull’abilità degli sviluppatori, sulla volontarietà della meccanica predisposta, sull’universalità dell’esperienza vissuta.
Quindi, pur rimarcando quanto all’inizio già evidenziato, e pur sottolineando che può essere pesante affrontare un libro interattivo in inglese, difficile entrare in sintonia con la struttura, possibile arrendersi e rinunciare ad andare avanti dopo poche ore, facile annoiarsi all’inizio, ancora più facile incavolarsi alla fine perché non si sa, non si capisce, non si arriva a modificare per l’ennesima e decisiva volta la storia, ma non si vuole cedere alla tentazione di controllare una guida su Internet perché senno che senso ha comprare un gioco così, pur con tutto questo e altri mille fattori che ognuno avrà il gusto di scoprire da sé e per sé, vale proprio la pena di leggere-giocare Steins;Gate.
Diverso dalle Visual Novel di Chunsoft arrivate in America o in Europa, perché meno frenetico, omogeneo e inizialmente coinvolgente, diverso da un Catherine o da un Ghost Trick, perché del tutto privo di puzzle, e diverso da tutti gli altri giochi similari più o meno noti (rinuncio alla lista!), Steins;Gate è proprio come una puntata di Voyager: parti incredulo, titubante rischi di cambiare canale, affascinato ti ritrovi a guardare, rapito vai pure a cercare su Internet se quello che si dice può essere approssimativamente vero e poi, a fine serata, quando è chiaro che non si è arrivati da nessunissima parte o a qualsivoglia verità di fatto, te ne vai a letto con una vaga sensazione di presa per i fondelli, ma tutto sommato soddisfatto e pronto a risintonizzarti su Rai 2 il lunedì successivo.
Ho comprato Steins;Gate inscatolato e in versione normale (quella limitata era esaurita da tempo!) presso un negozio online d'oltreoceano. Ho impiegato trenta ore variabili per arrivare dove sono arrivato. Ovviamente mi manca l’ultimo finale. Ovviamente sto barcamenandomi nel buio più assoluto. Ovviamente sto resistendo alla tentazione di cercare informazioni su Internet. Ovviamente ancora per poco…