Racconti dall'ospizio #35: Il NES con il senno di poi
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Farnetico e procedo a tentoni, nell'affannosa ricerca di un filo logico che mi porti a rendere giustizia al NES, anno zero di un mondo franato sotto il peso della mediocrità. Il 1983 fu l'inizio della fine, l'alba di una recessione che si protrarrà per almeno un triennio. Ormai sfiduciati e stanchi, i videogiocatori americani incrociarono le braccia e rispedirono al mittente una pletora di titoli senz'anima, pubblicati a ciclo continuo e senza vergogna. Il ruolo di capro espiatorio fu affidato al tie-in di E.T., ben presto collocato al vertice della maleodorante piramide: “dagli all'untore” e nessuno è più triste, la pancia gongola e il cervello si atrofizza. Per fortuna, gli storici videoludici hanno poi contribuito a fare luce e chiarezza sull'argomento. E ora linea alla regia, per un breve intermezzo musicale.
Dal canto suo, il Sol Levante sembrava non curarsi delle sfortune altrui: lì Nintendo dettava legge, con un Famicom che all'alba del 1985 aveva già piazzato 2,5 milioni di unità. Il mercato statunitense ingolosiva la casa di Kyoto, ambiziosa ma consapevole dei suoi limiti. Inizialmente bussò alle porte di Atari – sì, la stessa Atari che aveva trascinato un intero settore nel baratro – ma l'accordo di distribuzione sfumò. Preso atto dell'accaduto, Nintendo decise di agire in piena autonomia, cosa che nel vecchio continente non le riuscì fino al 1990.
Giugno 1985: il primo vagito del NES avviene nella cornice del CES, kermesse da sempre sinonimo di elettronica di consumo. La console è tozza, con un design geometrico e spigoloso, profilo iconico tracciato da Lance Barr. “Il carattere non le manca di certo, ma avrà i numeri per sfondare?” si chiedono gli addetti ai lavori, dando libero sfogo allo scetticismo. Una domanda più che legittima, che troverà una prima risposta qualche mese più tardi, per la precisione il 18 ottobre. In punta di piedi, Nintendo si focalizza sulla cintura metropolitana di New York: un test su piccola scala e all'insegna della cautela, che sortirà i risultati sperati. Nel giro di un lustro, il NES diventerà sinonimo di videogioco, accasandosi nel salotto di una famiglia americana su tre.
Quando vidi il NES, ne rimasi folgorato: ero un bambino con le idee chiare e una visione del mondo quasi monocromatica, priva di sfumature. Passavo gli uggiosi pomeriggi fra joystick e mangianastri, periferiche di un Commodore 128 che si fece carico del mio primo gameplay. Tutto era analogico e all'insegna del lo-fi, il ritmo era placido e pacioso. Ma il NES no, correva a un ritmo forsennato e non c'era verso di fermarlo. La sua era la voce del dissenso, un gigantesco dito medio all'indirizzo di Sinclair e Commodore, uno schiaffo in faccia ai tempi di caricamento e al divertimento monotasto. Abituato com'ero a QuickShot e soci, strabuzzai gli occhi di fronte al controller del NES, ergonomico, dalle dimensioni contenute e con l'essenziale a portata di pollice. I joystick – ingombranti e pericolanti, con quelle ventose che mai fornivano l'agognata stabilità – erano ormai un retaggio del passato.
Il NES non è una semplice console: è un'icona, un simbolo inconfondibile, un must della cultura pop. Sfugge dai cliché, al punto che persino inserire il software ha un non so che di unico e magico. La sequenza - soffi a pieni polmoni sui contatti della cartuccia, la infili nello slot, spingi il tutto energicamente verso il basso e infine premi il tasto power – è un elemento fondante del nostro DNA videoludico, al pari del Konami Code e del “Thank You Mario! But Our Princess Is In Another Castle”.
I must pubblicati su NES sono così tanti che mi risulta quasi impossibile stilare un elenco: l'intero Giappone si è speso sull'8 bit, sperimentando a più non posso e lasciando una traccia indelebile. Senza mancare di rispetto ai mostri sacri, colgo l'occasione per parlarvi di un mio personalissimo stracult, piccola gemma che mai vide la luce negli Stati Uniti. Si tratta di Ufouria: The Saga (in origine Hebereke), perla di una Sunsoft particolarmente ispirata. È un metroidvania che trabocca di follia nipponica, tutto votato alla demenzialità e al super deformed, a partire dal suo protagonista, un candido pulcino con un cappello di lana che fa tanto centottanta grammi di bontà in olio d'oliva. Sublime joypad alla mano, il titolo si distingue per gli eccellenti valori di produzione, compresa una colonna sonora che – come da tradizione Sunsoft – è un trionfo di chiptune.
Il NES è stato una console che ho a lungo desiderato, ma che alla fine non ho mai acquistato. Un vuoto che dapprima ho riempito con il Game Boy, salvo colmarlo con un trattamento a 16 bit, restando sempre fedele a Nintendo. Con il Nintendo Classic Mini: Nintendo Entertainment System ho finalmente chiuso un cerchio: l'attesa è stata lunga, ma ne è valsa la pena. Sono consapevole che si tratta di “semplice” emulazione, ma francamente me ne infischio, il cuore non vuole sentire ragione. Ora la storia è racchiusa nel palmo di una mano, nella replica mignon di un mostro sacro. E scusate se è poco.
Dal NES tutto è (ri)partito: Nintendo ha trasformato i videogiochi in un fenomeno culturale, plasmando l'immaginario collettivo di un'intera generazione. Trent'anni fa si è fatta la storia. E quella storia siamo noi. Riviverla con il senno di poi è un'esperienza più unica che rara, appagante e pregna di significato.