Il cinema imparziale di La cosa: Qui tra noi c'è qualcuno che non è quello che sembra
Era il 1982. Avevo cinque anni e mia madre mi portò per la prima volta al cinema a vedere E.T. l’extra-terrestre. Ricordo poco, pochissimo di quel pomeriggio (tantomeno del film), forse solo una frase che mi bisbigliò la mamma non appena si spensero le luci (PAUUURAA!!!):
Me ne stetti raggomitolato/impaurito per tutto il tempo su una (già allora) logora poltroncina del Cinema Corso (che oggi non esiste più, frechete), controllando continuamente che tra una fila e l’altra non camminassero dei piccolissimi alieni col dito rosso.
Ovviamente, non sapevo che quella pallalcazzo buonista di Steven Spielberg avrebbe giocato un ruolo determinante nel flop della pellicola di John Carpenter. È storia nota: era il 1982 e il mondo aveva bisogno dell'extraterrestre adorabile e spaurito, portatore di messaggi di pace e sicurezza siderale, piuttosto che di scienziati sventrati, alieni falciformi e ansia a palate.
Brutale e incompreso, il film di Carpenter incassò una sega.
Frechete, doppio frechete, triplo frechete mortale all’indietro.
Comincia male questo inverno.
Antartide, 1982 - "Man is the warmest place to hide”. Che vuol dire solo una cosa: nessuno può più fidarsi di nessun altro. Ogni identità è persa, il dubbio pervade l'intera trappola di ghiaccio, la tensione te la puoi praticamente spalmare in faccia. Cani dilaniati. Tagliole toraciche. Teste mozzate che si rintanano nei condotti di areazione. Effetti speciali perfetti per il disco dei Tool che uscirà fra dieci anni. Barbe spettacolari. Inquadrature angoscianti e claustrofobiche. Freddo. Troppo freddo, cazzo. E la colonna sonora di Ennio Morricone che pulsa lenta e incombe pesante, rendendo ancora più terrificante ogni scorcio della Base Scientifica U.S. Outpost #31, un syberian husky o un elicottero parcheggiato.
La psicosi della pellicola di Carpenter è fondata sul mito dell’identico, cioè del doppio. Ma qui il doppio è in vantaggio, è giudice e boia. Il confronto tra umani e alieni non è già la pura lotta fra bene e male ma un'atroce mischia manicheista, messa sotto gli occhi di un terzo sguardo. Postula l’esistenza di un'ulta-natura a livello del cielo, del ghiaccio e dell'intestino crasso, perché il terrore è appunto nel cielo, nel ghiaccio e nel colon di ogni bravo scienziato antartico.
La cosa è ancor oggi un film perfetto, il film sulla paranoia per eccellenza, un specchio sinistro, visibilmente angosciante e sorprendentemente moderno della realtà. Lo straniero/alieno, in The Thing, non è più allineato dalla più forte tra tutte le appropriazioni terrestri, quella dell’identità. Poco importa che sia uno scemo di guerra o una Cosa dall’altro mondo: siamo completamente incapaci di immaginare l’altro; l’alterità è diventato il concetto che più ripugna al buon senso.
Ennesimo frechete.
Però, oh, i norvegesi l’avevano detto all’inizio del film: “Det er ikke en bikkje, det er en slags ting! Det imiterer en bikkje, det er ikke virkelig!” Che tradotto, verrebbe più o meno: “Non è un cane, è una sorta di cosa! Imita un cane, ma non è reale!”.
Se avete fatto un sol boccone di tutte le otto puntate dell'ottimo Stranger Things e se la serie dei Duffer Bros. vi è piaciuta un bel po', il merito è senz'altro del poster de La Cosa (The Thing, John Carpenter, 1982) appeso nello scantinato di Dungeons & Dragons. Che comunque abbiamo recensito qui.
Il poster di La cosa (The Thing) campeggia su una parete dell'antro di Mike Wheeler nelle varie puntate della prima stagione di Stranger Things. Questo articolo fa parte della Cover Story "Stranger Things e gli anni Ottanta", che trovate riepilogata a questo indirizzo.