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Le origini rocambolesche di Street Fighter Zero

Le origini rocambolesche di Street Fighter Zero

Nella vita arriva sempre quel momento in cui si fantastica sulla possibilità di mischiare due grandi passioni, alla ricerca di improbabili Nirvana. È successo a chi ha inventato i wasabi peas, a chi ha creato i laser game e, probabilmente, anche a chi ha partorito la pizza con l’ananas, ancora oggi fonte di furiose discussioni tra chef stellati.

Per quanto mi riguarda, nel bel mezzo dell’adolescenza, uno dei miei sogni bagnati era giocare a un capitolo di Street Fighter con la direzione artistica degli anime giapponesi. La causa di questa fissazione erano in egual misura l’uscita di Darkstalkers e quella del lungometraggio animato Street Fighter II: The Animated Movie

Ormai erano anni che mi divertivo con Ryu e company, ma nonostante le continue richieste dei fan, Capcom non voleva saperne di pubblicare l’attesissimo Street Fighter III. Bloccati in un inesorabile giorno della marmotta, gli appassionati della serie erano condannati a giocare infinite revisioni dello stesso gioco, un po’ come accade oggi con anni di “Season“ a base di Pass e contenuti a pagamento.

All’epoca non avrei mai pensato che un “banale” problema di smaltimento dei magazzini avrebbe spinto Capcom a realizzare il mio desiderio. La storia della nascita di Street Fighter Zero è una bella favola della buonanotte, oltre a essere un buon modo per ricordare alle aziende l’importanza dei titoli sperimentali a basso budget.

I titoli della serie Zero/Alpha ebbero un successo tale da convincere Capcom a dedicargli una serie animata. Nell’immagine vedete i materiali di produzione relativi al personaggio di Dan Hibiki, uno dei boss segreti (selezionabili) di Street Fighter Zero e debolissimo contraltare del devastante Gouki/Akuma. La somiglianza con Robert e Ryo da Art of Fighting di SNK, ovviamente, era voluta!

Nel 1994, la popolarità di Street Fighter II era a livelli altissimi e, dopo anni di sfide furiose a casa e in sala giochi, i giocatori più hardcore avevano raggiunto un livello di abilità sovrumano. Per quanto possa sembrare assurdo, per Capcom (e per i gestori delle sale arcade) questo costituiva un problema. Se i giocatori erano troppo forti, potevano occupare un cabinato per ore e ore al costo di un unico gettone.

L’idea di dover affrontare mostri mitologici per lo più imbattibili, inoltre, allontanava gli eventuali nuovi giocatori, colpevoli di essersi avvicinati al gioco troppo tardi per avere anche solo una minima possibilità di vittoria.

Capcom doveva trovare un modo per attrarre i principianti (quando si dice che la storia si ripete), ma dopo anni di revisioni di Street Fighter II, molti sviluppatori veterani dell’azienda non avevano nessuna voglia di rimettere per l’ennesima volta mano alla serie.

Era il 1995 e Capcom aveva appena accolto un gran numero di nuove leve, da formare in vista dello sviluppo dei progetti futuri. Era il momento ideale per approvare nuovi titoli su cui sperimentare, permettendo così ai nuovi assunti di farsi le ossa.

Al tempo stesso, complice l’uscita della scheda jamma CPS-2, Capcom aveva i magazzini straripanti di CPS-1 invendute (o ritirate nell’ambito delle promozioni di lancio del nuovo hardware). Si trattava di un problema serio con cui le aziende avevano ciclicamente a che fare, e la compagnia di Osaka lo affrontò con lo spirito intraprendente distintivo della dirigenza dell’epoca.

La freschezza stilistica e gli ammiccamenti al mondo dell’animazione emergono prepotentemente nello stage e nel design di Sakura Kasugano, fan sfegatata di Ryu, che combatte nel cortile di casa mentre il fratellino è immerso in un’intensa sessione di videogiochi (con un picchiaduro Capcom?). Il suo tema è ancora oggi uno dei miei brani preferiti nella colonna sonora di Street Fighter Zero 2.

Un bel giorno, stanco di sentir tessere dai colleghi le lodi del neoassunto illustratore Naoto Kuroshima (sua maestà Bengus, che aveva realizzato per una rivista le reinterpretazioni dei personaggi del primo Street Fighter), il programmatore Seiji Okada propose di realizzare una versione di Street Fighter con i vecchi personaggi rifatti nel suo stile.

Sarebbe bastato sviluppare rapidamente qualcosa di accattivante che girasse sia su CPS-1 che su CPS-2, gestendo così in un solo colpo la formazione delle nuove leve e lo smaltimento del vecchio hardware. In condizioni normali sarebbe stata una passeggiata, ma al progetto venne data una finestra di sviluppo di appena tre mesi (poi ampliata a 6), a dimostrazione di quanto il gioco fosse marginale per Capcom.

Con tempi di lavorazione così stretti, un team di soli esordienti non avrebbe mai completato il lavoro, motivo per cui alcuni veterani decisero di partecipare comunque allo sviluppo. Venne quindi assemblata una squadra ben assortita (che includeva anche un giovane Hideaki Itsuno, elemento chiave della Capcom odierna), ideale per affrontare l’impresa con uno spirito meno corporativo e ancora in parte guidato dalla passione dei giocatori.

Ho giocato tantissimo a Street Fighter Zero 2 su Saturn e a Street Fighter Zero 3 su Dreamcast e PSP, con un’improbabile parentesi recente sul “guilty pleasure” dell’orribile conversione per Super Nintendo. Ancora oggi, quando ho bisogno di rifugiarmi nella comfort zone, carico lo Zero 2 sull’Astro City, direttamente dalla CPS-2. “Perfection”.

Il progetto fu chiamato provvisoriamente Street Fighter Classic, con l’idea di ambientarlo tra il primissimo Street Fighter, ormai dimenticato dai più, e l’amatissimo secondo capitolo della serie. Il cast avrebbe incluso alcuni volti noti, rappresentati nelle loro versioni più giovani, combattenti inediti e personaggi ripescati dall’iconico Final Fight, ufficializzando di fatto la condivisione del medesimo universo per le due saghe.

La decisione di non affidare lo sviluppo al solito team si rivelò vincente quando emersero le prime idee innovative legate al gameplay. Sotto molti punti di vista, Street Fighter Zero fu un cantiere a cielo aperto per i picchiaduro Capcom.

Fu lì che l’azienda di Osaka mosse i primi passi verso il processo di semplificazione e accessibilità della sua serie di punta, che prosegue ancora oggi. La parata aerea, le super con più livelli di potenza, lo Zero Counter per uscire dalla pressione dell’avversario e passare all’attacco, la possibilità di alzarsi da terra rotolando, la modalità “Auto” con la parata automatica e, soprattutto, le Zero combo hanno contribuito a rendere questa incarnazione di Street Fighter molto più di un semplice prequel del capitolo più famoso.

La Dramatic Battle fu un’altra gradita novità della serie Zero/Alpha. Picchiare in due il malefico dittatore era una goduria!

Quando giocai per la prima volta a Street Fighter Alpha (come venne chiamato nei paesi occidentali), rimasi a bocca aperta di fronte alla sua qualità artistica. Inizialmente non apprezzai del tutto le modifiche al gameplay. Dopo anni di Street Fighter II, alcuni elementi dell’Alpha mi sembravano troppo semplificati, e a volte sembrava di giocare a un prototipo incompleto.

Le cose cambiarono notevolmente con l’arrivo di Street Fighter Zero 2, che ancora oggi considero il picco artistico della serie. Al netto di alcuni elementi di gameplay ancora imperfetti (le Zero combo, in particolare), Street Fighter Zero 2 vantava una colonna sonora ispiratissima, una direzione artistica fuori di testa e un cast di personaggi ben più nutrito e bilanciato rispetto al capitolo precedente (a parte Rose. Lo Zero Counter di Rose è semplicemente SBAGLIATO).

Con Street Fighter Zero 3 Capcom ampliò moltissimo il cast di personaggi selezionabili (con new entry clamorose come Karin Kanzuki), ma perse molta della freschezza artistica del capitolo precedente. I fondali erano anonimi e la colonna sonora dimenticabile. Ludicamente parlando, però, Street Fighter Zero 3 era (ed è ancora oggi) un titolo divertentissimo capace di appassionare giocatori di qualsiasi livello.

Una piccola parte della mia collezione di Alpha-Chun. Mancano molti pezzi da novanta, ma la scadenza è vicina e ho tirato fuori le opere che avevo a portata di mano. La cosa più bella è che, col passare del tempo, anche gli amici hanno iniziato a regalarmi spontaneamente le proprie interpretazioni (Grazie!).

Nel corso degli anni Capcom ha realizzato innumerevoli conversioni della serie Zero, per le piattaforme più disparate. È in questa saga che ha iniziato a inserire modalità specifiche per le console, pensate per intrattenere a lungo i giocatori al di là delle sfide multiplayer. Provate a chiedere a qualche anziano combattente virtuale se ricorda la modalità Wolrd Tour di Street Fighter Alpha 3 e ascoltate la sua risposta: verrete travolti da parole al miele cariche di nostalgia d’annata.

Nel mio caso, però, l’elemento di Street Fighter Zero che mi ha rubato il cuore è stato il redesign di Chun-Li. Rispetto alla versione adulta di Street Fighter II, dal design comunque vincente, Alpha-Chun aveva una potenza estetica ancora più unica e coraggiosa. La combattente selezionabile nel gioco, ancora inesperta, indossava una tuta aderente caratterizzata dai colori aziendali di Capcom (quelle tonalità inconfondibili di blu e giallo), con un distintivo corpetto cinese e un paio di scarpe da ginnastica abbinate.

Il nuovo costume metteva per la prima volta in evidenza il corpo muscoloso della ragazza, con un’attenzione particolare per le cosce e le spalle. Non era una rappresentazione grottesca o esagerata, ma l’immagine credibile di un’atleta abituata ad azioni funamboliche, libera dal fastidioso fan service fin troppo diffuso nei picchiaduro dell’epoca.

Amo così tanto il design di Alpha-Chun che negli anni ho portato avanti una collezione di illustrazioni originali commissionate ai disegnatori che apprezzo, più o meno famosi. Vedere come un personaggio tanto iconico può cambiare a seconda dello stile e dell’idea dell’artista di turno mi scalda il cuore, e rappresenta uno dei tanti esempi di quanto la passione per i videogiochi (e per Street Fighter, in particolare), abbia segnato la mia vita.

Like a Hurricane: An Unofficial Oral History of Street Fighter II è un libro indispensabile per i fan dei giochi di combattimento Capcom. È nato da una memorabile collaborazione tra Polygon e Read-Only Memory e racchiude innumerevoli curiosità sullo sviluppo di alcuni celebri picchiaduro della casa di Osaka.

Ci sono molti altri aneddoti legati allo sviluppo di Street Fighter Zero, ma non voglio trasformare questo articolo in un saggio accademico. Vi rimando piuttosto all’affascinante ricostruzione realizzata anni fa dal team di Polygon, successivamente inserita nel volume Like a Hurricane: An Unofficial Oral History of Street Fighter II. Compratelo, leggetelo o recuperatene alcuni estratti direttamente su Polygon, perché ne vale davvero la pena.

Nel frattempo, spero di aver acceso almeno in parte il vostro interesse, rievocando lo spaccato di un’epoca in cui non si rinunciava a sperimentare con progetti inediti e coraggiosi. Era indubbiamente un mercato diverso, nei numeri e nelle dinamiche, molto meno inclusivo e accessibile, ma visto che siamo nell’Ospizio, posso permettermi di scriverlo senza vergognarmi troppo: a volte mi manca. Buon trentesimo compleanno, Street Fighter Zero!

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