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Roguelike, odi et amo: il caso The Persistence

Roguelike, odi et amo: il caso The Persistence

Sono della veccia guardia, non me ne vergogno. Non ne faccio un motivo di “eh voi giovani non capite un cazzo”, anche se qualche rigurgito reazionario a volte si presenta, ma non al punto da farmi salire il nazismo e invadere la Polonia. Tra me e me però borbotto, oh se borbotto!

Borbotto contro il multiplayer feroce che mi tiene lontano per limiti fisici o di dedizione; borbotto contro i GAAS che succhiano risorse e investimenti ai titoli single player, borbotto contro le “piattaforme creative” o i cozy game, perché non c’ho tempo e voglia; infine, borbotto contro i derivati di Rogue, per motivi che non posso condensare in una riga.

L’assenza di un vero scopo, la perdita dei progressi, la ripetitività, sono molti gli aspetti che, quando in coabitazione nello stesso design, finiscono per stancarmi e farmi perdere interesse in strutture che in realtà, quando funzionano, ammiro per coesione, lucidità e visione.

Ci sono titoli che ho sicuramente apprezzato, Dicey Dungeons, Hades, Risk of Rain, Crypt of the Necrodancer… così come altri che proprio mi hanno respinto (Spelunky). In tuti i casi, però, arrivo sempre a quel momento in cui mi sento satollo, pur sapendo di non aver nemmeno scalfito l’offerta ludica. In genere raggiungere la fine un paio di volte mi è sufficiente per esaurire la spinta.

La pervasività della formula non mi aiuta poi certo ad apprezzarla. Troppe volte l’entusiasmo di fronte a un trailer ben confezionato si è sgonfiato come un petofono alla comparsa della temuta parola: “roguelike”. Ma il termine è come bioparco, non è una bestemmia, se non è inteso come tale. Entri dunque The Persistence, un titolo timorato di Dio.

In The Persistence ci sono antagonisti incazzati, alcuni sono massicci E incazzati, ma con un po’ di astuzia possono diventare dei paciocconi al proprio servizio.

Realizzato da Firesprite, pubblicato nel 2018 esclusivamente per PSVR e riedito nel 2020 per tutte le altre piattaforme, The Persistence recupera atmosfere survival horror fantascientifiche e le ibrida con elementi randomici.

Alla deriva su una nave spaziale prossima ad un buco nero che, per qualche ragione pseudo scientifica, ha moltiplicato l’equipaggio e l’ha tramutato in mutanti, il volenteroso giocatore deve riattivare i vari sistemi per ritornare a casa. Arredamenti minimal, luci sfarfallanti, rumori ambientali, look industriale… ci siamo capiti. Da Alien a Dead Space cambia vagamente la declinazione ma la sostanza della messa in scena è quella. È testata, comunica chiaramente all’utente il suo funzionamento pur essendo un mondo di finzione, ha meccaniche rodate, insomma non c’è motivo per reinventare la ruota. In questo spazio, letteralmente, The Persistence modella le regole della generazione casuale, piegandole però ad un’esperienza più vicina a un gioco single player classico, risultando vincente. 

Guess the game: a quali roguelike è ispirata questa immagine? (la soluzione è nel testo).

Uno degli aspetti spesso criticati nei roguelike è l’insistenza sul fallimento e sulla ripetizione. Si potrebbe obiettare che entrambi gli elementi siano fondanti anche dei soulslike, dove vengono elevati a valore indiscusso. Non è errato, eppure c’è una sostanziale differenza: nei souls si ha una possibilità per riprendersi quanto perso a causa di un decesso e, pur in caso di morte, i progressi non vengano azzerati del tutto, bensì solo quelli dal precedente checkpoint. Inoltre, la struttura fissa dei livelli permette di pianificare, cosa impossibile nei roguelike, che vivono di improvvisazione.

L’equilibrio tra imprevedibilità e ripetitività è uno degli aspetti per me abrasivi del genere. Ritrovarsi in aree sempre diverse ma fondamentalmente costruite a moduli, con nemici non prevedibili ma comunque presi da un pool limitato, lascia in balia degli eventi, sorprendendo ma con elementi conosciuti. Non è il senso elettrizzante dell’ignoto, ma quello angosciante di trovarsi preda di una combinazione di ostacoli che potrebbe rovinare il proprio progresso, senza appello. E per lo più essendo alla mercè dei capricci di potenziamenti casuali.

Ritornando a quanto scrivevo poc’anzi, prepararsi è difficile, se non inattuabile. Un’impossibilità che va a minare quella fiducia nel poter affrontare le situazioni se supportati da un’adeguata pianificazione. Smantella la certezza, la comfort zone che istintivamente ricerco nei videogiochi: l’idea che organizzandomi adeguatamente e seguendo certe regole ne uscirò vincitore; quella capacità di comprendere i meccanismi, la disposizione delle avversità e risolvere l’enigma posto dai designer.

The Persistence non manca di bollare il cartellino per quanto concerne la generazione casuale dei livelli, ma limita la depressione che ogni disfatta porta con sé permettendo di mantenere ed accumulare le risorse. In tal modo, al tentativo successivo si potrà ricostruire il proprio arsenale molto rapidamente, evitando di dover scandagliare in maniera certosina i livelli iniziali. Affiancato al fatto che i potenziamenti siano anch’essi permanenti e che si possano selezionare le armi nelle stazioni che si incontrano sulla nave (l’aleatorietà è dovuta al tipo di strumento che alternativamente viene messo in vendita tra armi da fuoco, gadget, bombe e oggetti sperimentali), pianificare è effettivamente possibile, ci si sente più in controllo, capaci di un reale progresso che rimane proprio, che, appunto, persiste.

L’insistenza dei roguelike nell’azzerare le lancette dell’orologio è stata mitigata negli anni recenti, pur non avendo, per quanto mi riguarda, trovato un bilanciamento soddisfacente. Esisteva in realtà dal 2018 ma io non lo sapevo. Perché non è il fallimento tout court che mi spaventa; è il fallimento ciclico e infruttuoso, quello che restituisce la sensazione di aver perso tempo, dal quale non ricavo altro che un indefinito bagaglio esperienziale. Ciò che ricerco è il fallimento evitabile grazie alla preveggenza degli ostacoli. È uno di quei superpoteri che ogni essere umano vorrebbe: la possibilità di sapere cosa c’è oltre la sliding door. I videogiocatori si sono sempre inebriati di questo potere, i roguelike lo mitigano o azzerano, risultando ansiogeni quanto la vita reale. 

Boss fight: a sinistra come sono la prima volta, a destra come diventano dopo l’ennesima iterazione.

I guardiani di fine livello per me sono come la disco music, li amo poi li odio poi li amo poi li odio e poi li apprezzo. Ma come la disco music devono avere una loro collocazione. La fine di uno stage deve essere un momento da celebrare, una volta. Poi basta. Chi ha inventato le boss rush, per esempio, per me avrebbe dovuto avere il 42 bis, in modo da non poter contagiare altri designer.

Quindi il boss lo vedi, ne godi della spettacolarità, lo soggioghi e poi lo riponi sanguinante nel cassetto dei ricordi. Molti roguelike questa mia necessità non la capiscono. Ripropongono sti zozzoni a ogni giro. A volte pure più potenti, con pattern modificati. In più ogni livello va rifatto spesso da capo e magari pure con cura di setacciare ogni angolo perché, come si scriveva poco sopra, altrimenti si arriva impreparati all’appuntamento col dolore. Il loop diventa lungo, al limite del fastidioso. E quando finalmente ci si presenta di fronte ad un nuovo guardiano, si viene asfaltati senza capirne bene i pattern. E via, un’altra mezz’oretta per poterci riprovare. Tempo perso.

Anche in questo The Persistence offre una facilitazione. Una volta espletata l’operazione particolare che prelude alla fine di uno dei piani della nave (i suoi boss finali, in un certo senso), questa non dovrà essere ripetuta successivamente. Non solo, nei tentativi seguenti l’ascensore che conduce ai livelli superiori sarà collocato molto più in prossimità del punto di partenza. Questo si chiama aver cura del tempo del giocatore. 

Questo è un nemico decisamente infame. A voi il piacere di scoprire il perché.

Dove il gioco di Firesprite per me vince senza nemmeno entrare in campo è nel suo focus dritto e pulito a quello che serve. Proseguire in The Persistence non vuol dire sbloccare roba. Sbloccare roba non mi dispiace, ma non riesco a farne il fulcro della mai esperienza ludica. Se il gusto è sempre lo stesso, le nuove armi, le abilità fantasiose sono solo il condimento del contorno, il piatto quello resta. Non è una molla che mi basta né mi soddisfa. Anche perché più elementi significano un’ulteriore stratificazione nell’imprevedibilità. La varietà risolve un problema che non ho andando ad esacerbarne un altro che invece patisco. Mi serve una traiettoria da A alla Z, una conclusione, titoli di coda e tanti saluti. New Game +? Sì, ok, per chi ne ha voglia, non io, ma posso pure considerarlo, datemi però un’idea di conclusione. Il loop infinito non è il mio pane.

Forse il centro della questione è tutto qui: non cerco stravolgimenti, mi conforta la soluzione semplice, la pista anarchica. Ciò che per me è irritante, è in realtà il cuore pulsante del genere. Probabilmente quello che anelo è un’esperienza pepata da qualche incursione RNG pesante ma non costituente, un flusso di gioco con cuore e testa ben radicati in una cultura classica. Pur essendo convinto che sia un esempio virtuoso, magari The Persistence è un roguelike per chi non li ama, un bastardo che è più un gioco vecchio stile con elementi casuali, una risposta semplice. Ed è per questo che mi piace.

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