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Apocalipsis è tutto un memento mori (mo' me lo segno)

Apocalipsis è tutto un memento mori (mo' me lo segno)

Di questi tempi, è piuttosto difficile trovare la chiave giusta per rappresentare un videogioco, soprattutto se è un titolo indipendente che sul lato grafico punta il grosso delle chance per farsi notare, ed eventualmente emergere dalla massa. Secondo alcuni, il boom della pixel art in un auge da almeno un decennio ha ormai raggiunto il suo punto di saturazione, mentre il ritorno alla grafica low-poly non mi pare sia riuscito a creare una vera e propria corrente (ma magari sbaglio).

Comunque, al di là delle opportunità di mercato, la cosa più importante, quella che mi interessa più di tutte, è la coesione tra l’aspetto di un gioco e le dinamiche che propone. Coesione che, ad esempio, non sono riuscito a vedere nel recente Where the Water Tastes Like Wine, che si muove tra diverse soluzioni senza trovare la sua strada. In questo senso, invece, Apocalipsis: Harry at the End of the World mi ha colpito. Anzi, per certi versi mi ha addirittura sorpreso.

Ambientato in un medioevo fantastico che gira attorno all’iconografia da “danza macabra” in voga tra il 1400 e il 1500, e di rimando alle opere di Albrecht Dürer, Hans Holbein il Giovane e di Michael Wolgemut (come dichiarato dagli sviluppatori), oltre a quelle di Hieronymus Bosch (aggiungo io), il titolo sviluppato dallo studio polacco Punch Punk Games riesce a esprimere la sua personalità attraverso un gameplay che sulle prime ho dato per scontato.

Butto lì un bel Circe e Ulisse, di Michael Wolgemut, tanto per contestualizzare un po' il gioco.

Il gioco si vende come un’avventura grafica punta e clicca della vecchia scuola. Anzi, no, della scuola di mezzo, la stessa di Amanita Design con i vari Samorost e compagnia. Con i suoi vicini della Repubblica Ceca, Apocalipsis condivide un sistema di progressione basato su enigmi piuttosto chiusi a livello spaziale, oltre che relativamente semplici a livello di meccaniche. Al ritmo di un puzzle dopo l’altro, il gioco racconta la storia del giovane Harry, che si avvicina alla negromanzia nel tentativo di riportare in vita la sua amata Zula, accusata di stregoneria e condannata a morte come si usava fare quando c’era LVI (il diavolo).

Quella che in termini narrativi si presenta come una parafrasi di Shadow of the Colossus, in realtà ha molte più cose in comune con il classico indie Don’t Look Back, di Terry Cavanagh. Entrambi i giochi raccontano la catabasi del protagonista, una discesa agli inferi nel tentativo di resuscitare la propria amata, ed entrambi affondano le zampe nei miti di Orfeo e Euridice e, conseguentemente, nel solito ratto di Persefone da parte di Ade (sì, lo so, di queste robe avrò parlato mille volte: non ci posso fare nulla se me le ritrovo sempre tra le balle).

Tuttavia, laddove la meccanica di Don’t Look Back svelava presto la sua adesione ai miti di riferimento, fino a quella bella trovata del level design ribaltato, Apocalipsis, all’inizio, mi è passato un po’ via. Voglio dire, buona l’atmosfera, il lato artistico e i colori sono indovinati e anche le musiche fanno la loro, pur senza dare troppo nell’occhio (o nell’orecchio), eppure le rognette non mancano. La qualità è altalenante. Alcuni passaggi sono evidentemente meno riusciti di altri, più tirati via, mentre animazioni ed effetti vari non sono un granché. Per intenderci, siamo lontani dalla qualità dei giochi Playdead, che potrebbero permettersi di vivere anche solo di presentazione (MA non lo fanno).

Poi, ripeto, a livello di trovate c’è un sacco di carne al fuoco e l’iconografia è bella cruda, tipo vite dei santi. Tra chimere, scheletri, vergini di ferro, lingue e arti mozzati, c’è di che affrescare una basilica. Però, insomma, nel complesso e con tutta la buona volontà, non siamo a livelli di eccellenza.

«Puccettoni, quando si è così, si prende un singolo!»

Soprattutto, gli enigmi, di primo acchito, mi sono sembrati un po’, come dire, messi a caso, oltre che eccessivamente docili, per rispecchiare i crismi di un’avventura vera e propria. Per non dire poi della narrazione troppo asciutta, espressa attraverso una manciata di scene statiche narrate da Adam “Nergal” Darski, leader del gruppo black/death metal Behemoth (che non conosco).

Ciononostante, mentre pensavo, andavo avanti a giocare in maniera fluida, quasi senza accorgermene, attraversando una dopo l’altra le varie ambientazioni appestate e sanguinolente, senza mai bloccarmi. La trovata di appiccicare la cornice di gioco al puntatore, anziché al personaggio, velocizza le esplorazioni e taglia i tempi morti. I pochi segmenti basati sulla destrezza sono semplicissimi e servono giusto a muovere il ritmo, mentre i vari enigmi contestuali, quelli logici (basati perlopiù sullo scioglimento di sequenze di numeri e i simboli) e i minigiochi non sono mai davvero impegnativi.

Tra i suggerimenti cromatici del cursore e i salvataggi automatici fitti, se ne esce facile. Poi, col fatto che le sezioni sono divise in blocchi dalle variabili limitate, anche quando mi è capitato di incartarmi, sono riuscito a cavarmela smanettando o girando cose a caso. Oddio, durante un enigma o due, ho preso appunti su un post-it (robe di numeri, perlopiù), e qualche volta la leggibilità dell’inventario è venuta meno. Ma insomma, nel complesso, nulla di che.

Eppure, dicevo, andando avanti per inerzia come in certe fiabe, poco prima della metà, il gioco mi si è aperto. E mi ha sorpreso, sì. Gli enigmi che fino a quel momento erano parsi così aleatori hanno iniziato a fondersi sempre di più - e sempre meglio - con il contesto narrativo, diventando a tutti gli effetti dei riti complementari al mito. A quel punto, la semplicità non è stata più un problema, dal momento che ho smesso di preoccuparmi della sfida per gustarmi tutti i significati espressi da ciascuna interazione. E ce ne sono davvero un sacco, di significati, quasi tutti afferenti alla tradizione orfica, legati ai rapporti di Demetra e Persefone con l’agricoltura e con la ciclicità di vita e morte. Anche il racconto della catabasi vera e propria è da manuale e, oltre a sfruttare bene tutti i simboli del caso, si prende pure il gusto di aggiungere qualche finezza. Insomma, si capisce che gli sviluppatori, prima di prendere la penna in mano, hanno fatto tutti i compiti e le ricerche di fino.

Se in un gioco mi infili riferimenti ai culti orfici, rituali di prosperità e palle varie, sono bello che fatto.

Per tagliare corto, Punch Punk Games ha spostato gli equilibri dei drammi interattivi (o walking simulator, o come pare a voi) dalla narrazione diretta alla componente rituale e simbolica, senza tuttavia scollinare nel gioco-gioco.

Il risultato di questo esperimento (che poi, esperimento: di precedenti ce ne sono proprio tra i suddetti titoli di Amanita Design, ad esempio) non sarà proprio perfetto. Anzi, come ho detto, non lo è affatto, ché certi segmenti hanno quasi un sapore amatoriale. Però, insomma, io nel dubbio Apocalipsis lo consiglio. Sia per il prezzo ridotto - 6,99 sacchi - che per la breve durata dell’esperienza (è ‘na qualità!). Alla brutta, mettetemi le faccette arrabbiate su Facebook.

Ho giocato ad Apocalipsis sul mio vecchio MacBook Pro grazie a un codice Steam gentilmente fornito dal publisher, Klabater (o sarà stato lo sviluppatore, a fornirlo? Boh, vedetevela con giopep). Comunque, ovviamente c’è anche per PC. Ho raggiunto il false ending nel giro di cinque ore lasse con pause e tutto - e durante le pause non metto mai in pausa - e il true ending esattamente cinque minuti dopo, consultando YouTube (ché, come insegna il gioco, la vita è breve).

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