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Racconti dall’ospizio #222: Devil May Cry 3 - Sei stili per un tamarro

Racconti dall’ospizio #222: Devil May Cry 3 - Sei stili per un tamarro

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Devil May Cry 3 suscita in me pensieri nebulosi e contrastanti. Non tanto per colpa del gioco in sé, badate bene, quanto per le innumerevoli versioni pubblicate. Pensare al giovane Dante mi riporta ai tempi dell’originale per PlayStation 2, con le versioni HD per PS3 e successivamente PS4 che si rincorrono, si accavallano, procurandomi un piacevole senso di stordimento. Con il terzo capitolo della saga, Capcom doveva mettere una pezza all’indecoroso flop del precedente episodio, e a guardare il risultato ora, direi che ha svolto il compito in maniera inappuntabile.

Pizza e figo.

Devil May Cry 2 era poco tecnico? Il terzo capitolo offriva quattro stili di combattimento diversi, ai quali se ne aggiungevano altri due, ognuno con un numero spropositato di mosse e combo. Devil May Cry 2 era troppo facile? Il terzo episodio alzava l’asticella fino a disperderne le tracce, e non scherzo quando affermo che la sola prima missione era forse più difficile di tutto il precedente capitolo. Un’iperbole non così lontana dalla realtà, tant’è che, nelle versioni successive, gli sviluppatori inserirono un paio di limature al gameplay, senza stravolgerne la scorza, per fortuna.

La versione in oggetto, denominata Dante’s Awakening, sarebbe stata ripresa in ogni successiva riedizione, offrendo un piccolo aiuto ai videogiocatori oramai assuefatti da infiniti tutorial e checkpoint a valanga (che poi sono il primo a lamentarne l’assenza quando la difficoltà di un gioco è alta, ma fa sempre figo scrivere il contrario). L’altro asso nella manica di Devil May Cry 3 era la sua direzione artistica e la caratterizzazione sopra le righe dei protagonisti. Soprattutto Dante, che le righe non le vedeva proprio e si esibiva in cutscene così gradasse da sconfinare ampiamente nel ridicolo.

“Non so se sia arte, però la sento”.

Ma era un “ridicolo” giocoso, consapevole, che metteva in risalto la volontà di Capcom nel voler reinventare le atmosfere della saga. L’era dell’eroe tenebroso, silente e letale cominciava a cedere il passo a quella dell’antieroe dalla lingua tagliente e l’animo spensierato, sempre pronto a stemperare i toni con l’ennesima freddura. Nel mondo cinematografico, protagonisti del genere erano ormai la norma e l’universo videoludico, sempre più vario e in espansione, cominciava a spuntare tutte le caselle sotto la voce “narrazione“, senza complessi di inferiorità. Accodandosi a una matrice narrativa sempre più vicina al gigantismo occidentale, piuttosto che alla (melo)drammaticità orientale, il carrozzone videoludico trovava in Dante il testimone perfetto per quel tipo di emancipazione e direzione.

Il gioco in una delle sue innumerevoli remaster.

Tuttavia, è un’analisi circoscritta di un processo ben più ampio: a voler tracciare il cambiamento e le similitudini dei registri narrativi nel cinema e i videogiochi di quel periodo non basterebbe una tesi di laurea (o magari si, ma facciamo un’altra volta). Devil May Cry 3, oltre le matte risate, sapeva essere anche drammatico quando serviva, ma soprattutto si fregiava del suo essere ludicamente bastardo, al punto da farti sentire un pirla se solo contemplavi l’idea di utilizzare un “continua” per finire un boss.

Paradossalmente, la portata tecnica del gioco, edulcorata nei ricordi proprio a causa delle già citate riedizioni HD, era davvero sontuosa. Siamo su una PlayStation 2, intorno al 2005, e vedere Dante massacrare dozzine di nemici con bonaria noncuranza era (ed è ancora) un vero spettacolo. L’animazione del fucile a canne mozze usato come un nunchaku rimarrà impressa nella mia memoria per sempre.

Henshin a go go baby! Oh, quello era un altro…

Una rinascita dalle ceneri degna della miglior fenice, che consacrava Devil May Cry 3 come uno fra i migliori stylish game di sempre. Eppure, la più grande vittoria di Capcom era nell’inebetimento del videogiocatore, centrifugato da una difficoltà enorme, ma sempre spronato ad andare avanti e, successivamente, ad andare avanti con stile. Distrutto, maltrattato, annichilito, eppure sempre pronto a rialzarsi, il giocatore alle prese con Devil May Cry 3 vive una vera e propria sindrome di Stoccolma videoludica: rapito da un gameplay infame, eppure - e proprio per questo - legato amabilmente alle sue sevizie.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Devil May Cry e alle pizze in faccia alla giapponese, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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