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L'anime di Devil May Cry fa piangere, ma non dalla commozione

L'anime di Devil May Cry fa piangere, ma non dalla commozione

Qualche settimana fa, mentre metteva a punto la Cover Story, giopep me l’ha buttata lì: «Perché non ti guardi l'anime di Devil May Cry e ne scrivi? Tanto, se sei sopravvissuto ad Alita... :D».

Già, perché no? Tutto sommato in questo periodo ho un po’ di scazzo per i videogiochi: casa mia straborda di roba a cui vorrei/dovrei giocare, ma alla fine vince sempre la pigrizia e finisco per stravaccarmi sul divano e lanciare qualche schifezza giapponese da Netflix o Crunchyroll.

Eppoi, l’anime di Alita mi ha fatto talmente cagare che al confronto - ho pensato - uno uscito nel 2007 e per di più poggiato su un grosso franchise, cosa potrebbe mai propormi di così male?

E invece no, niente, mi ha detto merda pure a questo giro. Peccato. Peccato, perché dall’immaginario di Devil May Cry, tutto sommato, qualcosa di carino lo si sarebbe potuto tirar fuori, magari buttandola in caciara. Ma evidentemente, dalle parti di Madhouse la vedono in maniera diversa. Questa cosa di Dante e della (pff… Ahahhaahha) Divina Commedia hanno deciso di prenderla dannatamente sul serio, impastando - al netto di qualche faccetta qua e là - un’atmosfera tutta piena di sussiego e maledettismo da quattro soldi, che ha davvero poco a che spartire con le bordate iperboliche della controparte videogiocosa.

E visto che c’erano, per tirare a fare gli occidentali, hanno scelto un set pacchianissimo, che pare uscito da certi claim delle agenzie di viaggi tipo “Gira l’Europa in una settimana”, o dallo stage di Andy Bogard in Fatal Fury 2.

Giappone, dove il #MeToo non è mai arrivato.

E sì che che tra gli sceneggiatori leggo il nome di Bingo Morihashi, che, avendo collaborato alla scrittura del secondo, del terzo e del quarto Devil May Cry, ti verrebbe da dire che il personaggio un po’ lo conosca, mentre la regia è stata affidata a Shin Itagaki, che tutto sommato è un discreto mestierante. Insomma, da gente così - e dai soldi di Madhouse - una produzione di medio livello uno se l’aspetterebbe, mentre qui siamo di fronte a un totale pasticcio. Dodici episodi verticali tenuti assieme - oltre che dal protagonista e dallo sputo - da una sottotrama orizzontale piuttosto deboluccia.

Tutto gira attorno alle macchinazioni di un demone di basso rango, Sid, e a Patty, ragazzina apparentemente orfana e dal passato misterioso, che gli sceneggiatori, senza andare troppo per il sottile, mettono a carico di Dante nel corso del primo episodio.

Il personaggio di Patty viene distribuito equamente tra parentesi lolicon e una linea comica mattissima.

Mandata in onda anche in Italia nel 2010 dal canale satellitare Man-ga e al momento spacciata dall’algoritmo di Netflix (98% compatibile, ‘sti cani), la serie è ufficialmente ambientata tra il primo e il secondo gioco. Ciò nonostante, i riferimenti al lore originale si fermano al mezzodemone protagonista, a Trish e a Lady, mentre per il resto siamo di fronte a un filler dai toni vagamente noir, che rielabora grossolanamente leggende metropolitane e racconti classici della tradizione occidentale (Dieci piccoli indiani, Romeo e Giulietta, Re Lear, eccetera).

Pur di evitare impicci con la storyline dei giochi, l’anime se la gioca sul “vedo non vedo”, evocando, ad esempio, la relazione tra Dante e Virgil attraverso il personaggio di Barsusa, ex servitore di Sparda. E, OK, è vero che la scappatoia è piuttosto comune per questo genere di produzioni, ma non giustifica la scrittura sciatta e un’architettura narrativa al limite del credibile, con personaggi che certe serie animate americane degli anni Ottanta facevano meglio, giuro.

Le pizze in faccia.

Le cose non vanno bene nemmeno sul versante artistico, dove imperversano gli sfondi piatti e precotti e un character design che definire incostante è dire poco. Quando a muoversi è Dante, ad esempio, il feeling è accettabile e le sequenze d’azione non sono malaccio, ma ogni volta che il focus si sposta su uno qualsiasi degli altri personaggi la qualità complessiva peggiora di brutto, mentre i vari demoni sono talmente cheap che paiono usciti da uno di quegli hentai con i mostri che andavano di moda (a casa mia) una ventina di anni fa.

Insomma, pure con tutta la buona volontà di questo mondo, non riesco a trovare una ragione valida per consigliarvi la visione di Devil May Cry, nemmeno se siete fan dei videogiochi omonimi. Soprattutto se siete fan dei videogiochi omonimi.

Ho guardato Devi May Cry su Netflix grazie a un abbonamento che pago bovinamente dal 2015. Mi dicono dalla regia che la serie è giunta in questi giorni anche nelle versioni Blu-Ray e DVD, su distribuzione di Koch Media, ma gli unici extra che potrebbero farmi considerare l’acquisto sarebbero una busta piena di soldi e la restituzione del tempo perduto. Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Devil May Cry e alle pizze in faccia alla giapponese, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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