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eXistenZ #27 – Video Games: The Movie

eXistenZ #27 – Video Games: The Movie

eXistenZ è la nostra rubrica in cui si chiacchiera del rapporto fra videogiochi e cinema, infilandoci in mezzo anche po' qualsiasi altra cosa ci passi per la testa e sia anche solo vagamente attinente. Si chiama eXistenZ perché quell'altro film di Cronenberg ce lo siamo bruciato e perché a dirla tutta è questo quello che parla proprio di videogiochi.

Il progetto di Video Games: The Movie nasce su Kickstarter circa un anno fa, tramite una campagna di raccolta fondi dal discreto successo (quasi il doppio dei sessantamila dollari posti come obiettivo) e grazie alla collaborazione di diversi luminari del settore videoludico, oltre che di quella faccia da totano di Zach Braff. L'obiettivo, così come descritto sulla pagina di Kickstarter, era di realizzare un documentario divulgativo, in grado di mostrare al mondo quanto i videogiochi siano incompresi. Che cicci.

Io, lo ammetto, prima di dedicarmi alla visione, di Video Games: The Movie non sapevo praticamente nulla. Mi sono accorto della sua esistenza grazie ai tweet con cui Zach Braff faceva presente che gli mancava un accordo di distribuzione solo per l'Italia, ho preso nota di una data d'uscita perfetta per questo episodio di eXistenZ e ho chiuso i contatti, attendendo di potermelo guardare. Ammetto anche senza problemi di non essere un fan del Braff, ma insomma, tanto il film mica l'ha diretto lui, e infatti mi sono posto davanti alla TV carico di ottimismo. Certo, se avessi dato uno sguardo a quella descrizione su Kickstarter prima di guardare il film, l'ottimismo sarebbe calato, perché – sarà un problema mio – ci leggo un tasso di sfiga che la metà basta, ma insomma, non è quello il punto. Il punto è che magari un 19% di pomodorometro è esagerato, oltre ad essere – immagino – il motivo per cui la sezione Press del sito ufficiale del film è ancora vuota, ma in effetti il film lascia addosso una sensazione come di... come di... come di... "Quei 12,99 dollari potevo anche risparmiarli".

Il problema principale del documentario di Jeremy Snead è che non sembra avere molto chiaro quale possa essere il suo pubblico. L'idea, come detto, era di tirar fuori un qualcosa di divulgativo, e infatti si parte subito con una serie di spiegazioni in stile infografica animata, accompagnate dall'efficace voce di Sean Astin, che raccontano le basi del settore, danno una veloce spolverata sulla tecnologia e mettono in fila per sommi capi la sua storia. Sulle prime sembra tutto molto semplice, generico e limitato a pochi fatti, come in fondo ha senso per un documentario che si rivolge a chi non conosce nulla del settore, ma sulla distanza questa impostazione si fa prendere dalla schizofrenia. A tratti, le cose vengono raccontate in maniera chiara ed efficace, per quanto semplice e banalotta, ma in altri momenti si passa a trattare argomenti senza dare un minimo di background e vengono date per scontate cose che, per il pubblico di riferimento, dubito lo siano (un esempio su tutti: Steam).

A questo si aggiunge la brutale parzialità dell'operazione, in due sensi ben distinti. Da un lato, l'intento di evangelizzazione, per quanto magari anche apprezzabile come tentativo, si mostra troppo ingenuo (se non addirittura in malafede). Argomenti spinosi come le polemiche sulla violenza di fine anni Novanta vengono sfiorati e liquidati in due parole, senza un minimo di approfondimento, per passar poi a sentenziare che il videogioco è arte in quanto somma di altre arti e dedicarsi infine alle marchette. L'ultima mezz'ora di film, non a caso quella più barbosa, approccia lo stato attuale del mercato partendo da un montaggio che pare pronto per l'apertura di una conferenza pre-E3 e lascia poi spazio a dichiarazioni che puzzano di reparto marketing lontano un miglio. Di nuovo, io credo senza problemi alla buona fede, ma il risultato rimane comunque moscio e un po' stucchevole, senza contare che il presunto target dell'operazione – lo testimonia, come detto, il pomodorometro – sente puzza di marchetta lontano un miglio.

Fun fact: A un certo punto c'è un errore di battitura nelle titolazioni.

Fun fact: A un certo punto c'è un errore di battitura nelle titolazioni.

L'altra faccia della parzialità sta nella natura “americanocentrica” dell'operazione, che va ben oltre il chiudere il montaggio iniziale con una forte iniezione di palla ovale. Tutto viene raccontato come se il mercato americano fosse l'unico che conta e se da un lato la cosa ha un fondo di verità, dall'altro è abbastanza ridicolo. Tracciare una cronologia, per quanto abbozzata, della storia dei videogiochi trattando il famoso crash del mercato americano del 1983 come se altrove non ci fosse altro, menzionando Nintendo e il Giappone solo in funzione di quel che farà per risollevare le sorti della torta di mele e ignorando completamente l'importanza del dominio sul fronte europeo da parte dei computer a 8 e 16 bit significa dare una visione quantomeno parziale. Poi, certo, ti stai rivolgendo a un pubblico americano, più o meno come un documentario sui danni del cibo di McDonald's non si rivolge certo all'agricoltore siciliano, ma allora poi non lamentarti se in quella che è stata una roccaforte Commodore non t'acquistano il film per la distribuzione (non che le due cose siano collegate, ma in fondo ci vedo una giustizia poetica).

Gli inventori del gioco su computer.

Gli inventori del gioco su computer.

Se guardi Video Games: The Movie senza conoscere l'argomento, ne deduci che tra Spacewar! e Doom non sia uscito un singolo videogioco su computer, per un clamoroso nulla di trent'anni abbondanti. A un certo punto scatta un montaggio e scopriamo che Richard Garriott significa Ultima Online e il gioco PC nasce grazie all'esplosione multiplayer generata da John Carmack e John Romero. E di nuovo, un senso c'è, soprattutto se si analizza il settore nell'ottica di cosa rappresenti, oggi, il multiplayer in ambito PC, ma la visione è a dir poco parziale e si dimentica di tanti pionieri incredibili, che comunque non è che in America non avessero un loro mercato. Ed è più che altro questo approccio parziale e un po' sconclusionato a rendere il documentario deludente anche per chi l'argomento lo conosce bene. Il tono semplice e divulgativo va benissimo, ma quando poi mi racconti le cose in maniera discutibile e offri uno sguardo talmente parziale da risultare stucchevole anche per chi dovrebbe stare dalla tua parte, beh, c'è qualcosa che non va.

Dopodiché, intendiamoci, si tratta di un documentario ben diretto e confezionato, curato nella forma e con una voce narrante azzeccata, seppur un po' sottosfruttata. Si lascia guardare in maniera gradevole, per quanto nella parte conclusiva mostri un po' la corda, può vantare interventi di personaggi storici che è sempre un piacere rivedere e ha almeno due o tre montaggi realizzati alla grandissima e che ti strappano la lacrimuccia. Ma, insomma, se il film che mira a rappresentare e legittimare il videogioco negli occhi dei miscredenti è questo, beh, paradossalmente, si capisce come mai si senta ancora il bisogno di realizzarlo, un film che legittimi. Anche se forse, alla fin fine, non è che ce ne sia poi tutto 'sto bisogno.

Il film è stato distribuito nelle sale in America e può essere acquistato tramite il sito ufficiale, per la visione in streaming o il download.

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