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La classifica nonsense del 2018

La classifica nonsense del 2018

Amici ma soprattutto amiche! Dicembre è tempo di tradizioni, feste comandate, abbuffate di cibo e di maroni. A questo proposito, ecco il grande ritorno della classifica nonsense, una roba che è sempre divertente scrivere ma che, mai come quest’anno, è un casino organizzativo non indifferente. Anche perché, mai come quest’anno, fino alla fine del tempo utile sono spuntate robe interessanti, tra GRIS, Below, Spider-versi, famiglie russe e quant’altro. Già, ché quest’anno ho fatto una classifichina un po’ più ampia, in cui assegno premi inconcludenti un po’ a tutti i medium, con la differenza, rispetto all’anno scorso, che mi sono tenuto il miglior gioco, la miglior serie e il miglior film per i tradizionali OTY di Outcast.

Premio “Articolo che avrei voluto scrivere”: Racconti dall'ospizio #176: Grim Fandango, il jazzato trionfo postmoderno della Morte

Se è vero come è vero che "il modo migliore di scrivere di videogiochi è non scrivere di videogiochi", bisogna sempre tenere in considerazione il fatto che bisogna anche avere qualcosa da raccontare, e non è poco. Aggiungete un punto di vista mai banale e una forma splendida a servizio dell’operazione a cuore aperto chiamata “scrivi di uno dei tuoi giochi preferiti”, e otterrete un pezzo da incorniciare. Punti extra per la possibilità di leggere una roba di Ugo senza ripescare riviste di dieci anni fa.

Premio Calcaterra per l’azzeramento della voglia di vivere™: Jerry Polemica

E Red Dead Redemption 2 non c’ha il gameplay. E Red Dead Redemption 2 c’ha il crunch time. E Red Dead Redemption 2 non me lo mandano. E Spider-Man amico delle guardie. E le donne non c’erano nell’antica Grecia. E le donne non c’erano durante le guerre. E i giochi Telltale non sono mai piaciuti a nessuno. E i politici non capiscono un cazzo di videogiochi. E c’è troppo gameplay. E non c’è abbastanza gameplay. E non è *davvero* il Dark Souls di tutti i Dark Souls. E c’avete anche un po’ rotto il cazzo, su, smettetela di fare i finti tonti per insultare la gente su Facebook. E se vi fanno schifo certe pratiche che sono sempre esistite e sempre esisteranno, smettete di finanziarle: ne colpisce più il portafoglio che la lingua.

Premio “Avrai pure tanti problemi ma di sicuro non quello del ritmo”: Minit

Sessanta secondi a run per un roguelite sono abbastanza? Evidentemente sì: in Minit si muore ogni minuto, a prescindere dalle proprie azioni, ma ciò non gli impedisce di proporre una linea narrativa semplice ed efficace (non potrebbe essere altrimenti) e un gameplay divertente. Certo, la forma lampo non aiuta subito a chiarire come sbloccare il paio di meccaniche di gioco “extra” che ci permettono di proseguire verso il traguardo, e forse la cosa inficia un po’ il divertimento complessivo, ma alla fine Minit è l’ennesimo bel giochino sgranocchino del ricchissimo anno di port su Switch.

Miglior episodio di serie TV 2018 per una serie che tutti gli anni ha il miglior episodio di serie TV: Free Churro - BoJack Horseman

Puoi passare alla storia per essere una serie con uno splendido episodio muto e uno splendido episodio-monologo? Sì, se ti chiami BoJack Horseman. Il sesto episodio è una perla da incastonare in quell’anello d’argento che è la quinta stagione, in cui Will Arnett si prende in spalla tutto e mette, ancora una volta, i sentimenti e i rapporti umani al centro di una serie che fa di queste cose il suo essere. Mezz’ora scarsa di perfezione, con una messa in scena semplice ma efficacissima, in grado di tenere incollati alla poltrona e rimetterci alla realtà un po’ diversi, sicuramente esterrefatti dall’ennesima invenzione di Bob-Waksberg e soci.

Premio “La solitudine dei numeri primi”: La serie Forza (ritira il premio Forza Horizon 4)

Giocando a Forza Horizon 4, ho avuto un momento di rivelazione. Durante una delle millemila gare, primo con distacco, con gli abilissimi Drivatar guidati dall’intelligenza artificiale (ma plasmati a immagine e somiglianza dei miei amici) impossibilitati a riprendermi, ho capito che in quel momento ero la serie Forza. Primo con distacco nel mondo delle corse videoludiche che puoi giocare col pad senza sentirti stronzo (per tutto il resto c’è Assetto Corsa), con uno stuolo di inseguitori plasmati a immagine e somiglianza che ci provano tantissimo ma che non ci riescono mai, lasciato a piccole variabili per dare gusto a una formula che ha già detto tutto anni fa. Forza, ormai anche Forza Horizon, al netto di novità atmosferiche e lustrini grafici, lascia il giocatore a un gameplay che, di base, è sempre quella gioia assoluta che ha raggiunto l’apice col secondo capitolo. Ci si può distrarre aggiungendo vestitini per degli avatar che fanno contento solo Bittanti, clacson impossibili, facendo gare sbagliate con mezzi inadatti e affidandosi a tutta una serie di altre amenità. Variabili poco convinte e convincenti, che rendono Forza un re solitario, annoiato della sua magnificenza, destinato ad arrivare primo ogni volta che scende in pista. E infatti, pur bellissimo e appagante, a ‘sto giro non sono riuscito a finirlo.

Premio ¯\_(ツ)_/¯ all’invisibilità: Microsoft

Abbiamo la console più potente sul mercato, più esteticamente discreta, silenziosa, con il pad più comodo, la resa grafica migliore, un servizio online a prova di bomba e un abbonamento che ti permette di giocare a un catalogo gigantesco pagando meno di Netflix. Ma nessuno lo sa.

Premio “Josef Fares” per la persona dell’anno: Tetsuya Mizuguchi
Nel redarre questa lista pezzo per pezzo, mese dopo mese di annotazioni, Post-it e deliri sparsi, mi stavo quasi dimenticando di Tetris Effect. Così vicina così lontana, l’ultima fatica di Tetsuya Mizuguchi riesce nell’impresa di essere nuova, meravigliosa e assuefacente come mai prima d’ora, e contestualmente anche qualcosa di conosciuto, familiare, come l’abbraccio di una persona cara. Mizuguchi ha fatto dell’inseguimento un’arte e, dopo aver messo a reperto la migliore versione possibile di REZ (almeno fino al prossimo bagno di LSD), ha finalmente dato la vita alla sua visione di Tetris, capolavoro senza tempo del (puzzle) gaming, innalzandolo a viaggio lisergico di primissima grandezza. Una visione che non potrebbe essere più distante dall’austerità sovietica dell’originale, ma allo stesso tempo risulta perfetta, inattaccabile, coinvolgente e “sicura” per tutti quelli che, ancora oggi, in un’epoca di coinvolgimento emotivo, narrazione emergente e gameplay serrato, vogliono solo mettere in ordine blocchettoni e far sparire tutto quello che non va dalla testa. Capolavoro.

Premio “Backlog” alla roba che proprio signora mia come si fa a vedere una roba se continuano a seppellirmi di appuntamenti cene di Natale e altre nefandezze: Le robe su Amazon Prime Video (ritira il premio Mrs. Maisel)

Certo, va anche detto che forse non avrei dovuto imbarcarmi nel terzo rewatch di Mad Men, ma sta di fatto che su Amazon Prime Video sono usciti The Romanoffs (che proprio di Mad Men è parente, perché si porta dietro mezzo cast e tutta la gente dallo showrunner in giù) e la seconda stagione di Marvelous Mrs. Maisel. Di The Romanoffs ho visto solo il primo episodio, che m’è parso poco più che uno spottone di Parigi (non che ce ne fosse bisogno) (giopep, mi manchi) girato con attori canissimi (Aaron Eckhart me lo ricordavo meno di pongo), però, insomma; di Mrs. Maisel ho visto la prima stagione a inizio 2018, mi pare, e insomma, tanto amore e tanto hype, finisco di recuperare la prima stagione con la signora e vado spedito. Sulla carta si fa presto, in pratica siamo fermi da settimane sul terzo episodio per colpa di lauree, cene aziendali, aperitivi, colleghi che se ne vanno, ma che oh?

Per pochi.

Premio al più bel gioco noioso della storia dei videogiochi: Red Dead Redemption 2

Si dice che quando sorridiamo mettiamo in azione dodici muscoli. Se in Red Dead Redemption 2 dovessimo far sorridere il nostro Arthur Morgan, probabilmente, dovremmo mettere in funzione dodici tasti diversi, interagendo con dei menu vecchi almeno quanto la scoperta dell’America. In Red Dead Redemption 2, però, non si sorride, ma si fanno un sacco di cose muscolarmente ben più impegnative: si spara agli orsi giganti, si scoccano frecce a cavallo, si taglia la legna, si fa crescere una barba importante. È tutto difficilissimo, in Red Dead Redemption 2. Ed è tutto di una noia rara. Ma è la noia più bella della vostra vita da videogiocatori.

Con Red Dead Redemption 2, Rockstar è riuscita a rendere divertente la noia, ricreando un periodo storico dai ritmi quieti e dilatati alla perfezione. Ancor prima di essere un gioco sul selvaggio West, Red Dead Redemption 2 è un simulatore perfetto di vita nel selvaggio West, con campi lunghi, vita rurale e improvvise esplosioni di violenza inaudita. Vi troverete a dormire con il pad in mano, con Red Dead Redemption 2, e va benissimo così, perché in maniera del tutto diegetica, dormirete durante gli spostamenti a cavallo, o nel mezzo di una sortita di pesca, o in quelle circostanze che, anche nella vita vera, vi porterebbero a chiudere gli occhi “solo un minuto”, e nel frattempo avete fatto 700 km, sono le due del mattino e la vostra ragazza è preoccupata del vostro prolungato silenzio. Poi, certo, ci sono una trama avvolgente, una resa grafica senza pari e dei valori di produzione insensati per chiunque non sia disposto a schiavizzare tutti i suoi dipendenti per almeno cinque anni, ma Red Dead Redemption 2 è soprattutto difficoltà reale a interfacciarsi con la vita e conseguente meritato riposo, nascosto in ogni anfratto di un periodo storico sfiancante e letale. Più di un’esperienza ludica, una ricostruzione storica perfetta.

“Non mi ricordo di averlo mai detto.” - Andrea Peduzzi, ca. 2018

Premio “De Gruttola d’oro” per l’eliminazione del confine tra cinema e videogioco: i tripla A occidentali del 2018

Avete presente quando state guardando una roba e vi rendete conto che la scena appena finita era tutto un piano sequenza? Quella sensazione lì, tipo “apperò!”? Ecco, il 2018, probabilmente, è stato il momento in cui quella sensazione lì è arrivata nella storia dei videogiochi. Da God of War e la sua scelta di, ehr, proporre un piano sequenza unico dall’inizio alla fine del gioco (sì, vabbé, i caricamenti, cacateci il cazzo) alla Manhattan di Spider-Man, passando ovviamente per Red Dead Redemption 2. Il cinema e il suo linguaggio hanno esondato nei videogiochi tripla A, senza però guastare meccaniche o contenuto ma, anzi, spesso valorizzando alcuni aspetti poco ludici come gli spostamenti. La forma è funzione, e mai come nel 2018 la forma è stata cinematografica, genuina pur nel suo essere derivata, con un effetto finale stupefacente. Menzione d’onore per gli NPC di plastica, sindacalisti del gameplay, che nonostante 4K e HDR ci ricordano come non serva la graficona per fare il videogioco.

Gioco più divertente del 2014 a cui non avete giocato nel 2014 ma neanche nel 2018: Sunset Overdrive

Lo dicevo allora, in una recensione già all’epoca basata sul ritardo cronico della scoperta casuale, e lo ribadisco oggi: Sunset Overdrive è un gioco divertentissimo. Perfetto antesignano di Spider-Man (che è il gioco più divertente del 2018) ma falcidiato dalla sfiga di essere esclusiva Microsoft, il deflagrante open world di Insomniac arriva su Steam proprio nell’anno in cui l’arrampicamuri si è mangiato il settembre di PlayStation (e di Outcast). Se non avete una PS4 e soffrite l’invidia del pene ragnesco, non avete una Xbox One o semplicemente non ci avete giocato all’epoca, correte su Steam e spendete ‘sti 19 euro. Diventerete anche voi dei vecchi connoisseur del videoludo e vi sarete anche gustati una fra le robe più gioiose dell’ultimo lustro.

Premio “Nipote di Mubarak” al film che per nove mesi è stato MOTY e poi è finito in provincia di Savona: Loro (ritira il premio Silvio Berlusconi)

Paolo Sorrentino c’avrà pure tanti problemi (uno tra tutti quello di fare sesso con gli animali in CGI), ma di sicuro non ne ha nel dipingere l’animo umano con una capacità abbacinante. Il suo ritratto in due parti riesce nell’ardua impresa di raccontarci un personaggio a dir poco controverso, di cui si è detto tutto e il contrario di tutto, e di spogliarlo più di quanto non ci abbia provato lui in ottantadue anni. Loro è un capolavoro di densità (bizzarro, a dirsi di un film diviso in due parti), che non sbroda come era lecito aspettarsi da un figlio illegittimo di Fellini, ma rimane sempre a fuoco sulle motivazioni che hanno portato Silvio a fare Berlusconi. Sorrentino non cerca un giudizio morale, la spettacolarizzazione, la denuncia. Dietro a quella risma di culi e tette che fa distrarre lo stolto (“La grande bellezza è una cagatah!1!!1”), il saggio indica l’uomo, il burattinaio, il personaggio da romanzo che sembrava avere in mano tutto, salvo poi rimanere da solo, alla costante ricerca di una validazione che, di questo passo, potrebbe arrivare solo perché si stava meglio quando si stava peggio.

A fronte di questo, per altro, mi sento di dire che non è un caso che Sorrentino, miglior regista italiano in vita, sia apparso in Boris, che non è solo la migliore serie italiana della storia, ma anche un trattato di sociologia, vita, universo e tutto quanto che, già nel 2010, aveva previsto i tempi peggiori: per la Grecia, per la fiction, per come Berlusconi si sarebbe ritagliato un’iconografia da “si stava meglio”, per tutto.

(Vorrei specificare che questo premio non vuole in nessun modo essere apologetico nei confronti di Berlusconi e tutto sommato neanche di Sorrentino. Peduzzi mi consiglia invece di essere apologetico nei confronti di Berlusconi perché, parole sue, “Se torna, meglio essere pronti, stavolta”. Fate voi le somme.)

Premio “Equivalente messicano non iscritto al sindacato”: The Other Side of the Wind

A novembre, Netflix ha reso disponibile They’ll Love Me When I’m Dead, incasinatissimo documentario sull’incasinatissimo processo creativo e produttivo dietro The Other Side of the Wind, l’ultimo film incompiuto di Orson Welles (quello di Quarto potere, non so se avete presente). Il documentario prende un po’ tutte le persone che hanno lavorato al film e le fa parlare una sopra l’altra, come fossero in un Room 237 in cui le opinioni non riescono neanche a essere interessanti, ché tanto si sta parlando di un film che non è mai esistito e di cui il solo Welles, dall’alto di una mente ampia almeno quanto il suo giro vita, aveva un’idea chiara. Non contenti, gli amici di Netflix hanno di lì a poco distribuito anche The Other Side of the Wind. Voi direte: ma non era un’incompiuta? Sì, lo era, ma, come da richiesta di Welles, Peter Bogdanovich o chi per lui si è messo a finire il film, montando tutti i vari pezzetti e ricostruendo più o meno il girato, tirandone fuori un film. Il problema è che Bogdanovic o chi per esso ha pensato bene di introdurre il film con una spiega, miscelando il documentario all’opera, sostanzialmente cagando sopra a una visione autoriale in un modo che, poco ma sicuro, avrebbe mandato Welles su tutte le furie. Parliamo di uno che si è sempre preso i suoi tempi, che ha vissuto dodici delle vite che spettano alle persone normali, che ha preso l’esilio come un modo per esplorare il suo genio ed è tornato solo per dare vita al suo capolavoro. Un film che doveva essere un racconto di cinema, una chiusura di una vita straordinaria, un meta-racconto probabilmente unico, che avrebbe segnato i tempi, e che invece è solo l’ennesimo sottoprodotto di una multinazionale senza volto che, con la scusa dell’autorialità, butta nel calderone una roba che di autoriale ha solo una patina, un’esca, un nome.

Premio “Jar Jar Binks” per la miglior serie dell’anno che dice cose che non dovrebbero interessare a nessuno: Better Call Saul

La curiosità morbosa genera degli incubi indimenticabili. Se la gente ha un conato di vomito ogni volta che sente le parole “saga dei prequel” è proprio perché, per amore del vil denaro, un creatore è tornato sulla sua opera, rompendo quanto di buono era riuscito a fare in prima battuta. È un destino comune a tutte quelle storie che decidono di rispondere a domande che nessuno ha posto e che negli ultimi anni hanno dato vita a quell’incubo lovecraftiano che noialtri chiamiamo “mercato dell’intrattenimento”. Dopo Breaking Bad, Vince Gilligan sembrava destinato a ripercorrere quella strada, rovinando tutto con Better Call Saul, e invece no. Better Call Saul è una storia flemmatica, sporca, ruvida, che si prende i suoi tempi e ti riempie di cazzotti. Anche se sai come andrà a finire per metà della gente coinvolta, la genesi dell’avvocato più sbagliato del mondo è un racconto sempre teso, micidiale nella sua messa in scena, semplicemente impeccabile. A ogni puntata sei lì che pensi che ti fermerai, ché non puoi vivere con questi tempi dilatati e queste divagazioni narrative, e a ogni puntata arrivi alla fine legato più di prima alla storia e ai personaggi, rimirando ogni fotografia e pensando che non ne hai ancora avuto abbastanza. It’s all good, man!

Premio “Tonino Mutandari” per essere un grande protagonista del Novecento: Katamari Damacy

Se in questo momento mi chiedessero qual è il mio gioco preferito di sempre, la mia risposta sarebbe Katamari Damacy. E lo direi perché quella gioia, quella voglia di fare ancora una partita e poi basta, quel sorriso concentrato degno delle sfide più belle, quel senso di sorpresa anche dopo la milionesima partita può dartelo solo un capolavoro senza tempo. E, cazzo, che capolavoro indescrivibile è Katamari Damacy. Ha tutto quello che un videogioco dovrebbe essere e anche di più, roba che ti fa sentire minuscolo di fronte a un’opera di tale magnificenza. Ora che finalmente il sogno di rivedere l’unica remaster di cui avevamo bisogno si è avverato (e comunque ci hanno fatto aspettare quattro anni dopo il decimo anniversario), grazie a Katamari Damacy REROLL tutti possono godere della gioia infantile, dell’assuefazione e della colonna sonora incredibile dell’opera prima di Keita Takahashi nella sua forma migliore, anche su Switch.

Vincitore del videoludo 2018: la parola BOY

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