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Le stelle sono tante, milioni di milioni

Le stelle sono tante, milioni di milioni

L’imminente uscita di Milky Way Prince – The Vampire Star mi ha portato a riflettere sul fatto che il videogioco, per quanto medium relativamente giovane, si stia impegnando a rappresentare i disturbi mentali oltre gli stereotipi.

Se fino a qualche anno fa, infatti, la tendenza era quella di mostrare le malattia mentali come un qualcosa di cui avere paura - i pazzi sono irrazionali, imprevedibili e violenti, quindi perfetti per vestire i panni del nemico - oggi sono sempre più i protagonisti o co-protagonisti afflitti da problematiche di natura psicologica.

A rompere gli schemi è stato, come spesso capita, il segmento indipendente, agevolando una serie di titoli in grado di servirsi dell’interazione per mettere il giocatore nella posizione di comprendere e empatizzare con chi soffre di questo o quest’altro disturbo.

Certo, giochi del genere non sono una passeggiata e bisogna essere pronti a calarsi in situazioni disturbanti se non addirittura sgradevoli. Ad ogni modo, di seguito trovate una lista di titoli tra i più interessanti che mi siano capitati tra le mani sull’argomento e che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito a far crescere culturalmente il medium.

Partiamo proprio da Milky Way Prince, visual novel semi-autobiografica dove il giovane autore Lorenzo Redaelli racconta il complicato rapporto sentimentale tra Sune, giovane afflitto da disturbo borderline di personalità, e Nuki, alter ego del giocatore (e dell’autore?) a cui viene chiesto di gestire la relazione attraverso una serie di scelte contestuali.

Sune ha paura del rifiuto, dell’abbandono, e risponde a queste ansie attraverso accessi di rabbia e pratiche di autolesionismo. Quello che colpisce della storia, oltre a renderla estremamente interessante, è l’analogia astronomica usata come espediente narrativo, un po’ come nell’ottimo If found….

Le diverse fasi della formazione di una stella diventano così la metafora del rapporto tra i due ragazzi, laddove Sune è un astro tanto brillante quanto instabile. Milky Way Prince è senz’altro una prova di grande impatto, ispiratissima dal punto di vista artistico e in grado di parlare di un problema relativamente poco conosciuto attraverso una scrittura asciutta e precisa.

Rimanendo in tema astronomico, un altro titolo che mi sento assolutamente di consigliare è Before I Forget . Si tratta di una piccolissima ma sorprendente avventura narrativa della durata di un’ora da giocare tutta d'un fiato, come suggeriscono le stesse autrici di 3-Fold games.

Nel gioco vestiamo i panni di Sunita, una cosmologa di origini indiane impegnata nella ricerca del suo Dylan, come si può leggere in uno dei tanti post-it sparsi per la casa. Casa che, stranamente, ha perso tutti i colori lasciando spazio soltanto ai contorni dei mobili e degli oggetti d’arredo.

Piano piano, attraverso l’esplorazione il giocatore farà affiorare le memorie di una vita passata che coloreranno di nuovo le stanze, oltre a svelare che Sunita è afflitta da demenza precoce. Toccando una fotografia, un articolo di giornale, una borsa o un disco, il piccolo mondo della donna tornerà a splendere, mostrando per antitesi tutto il dolore di una mente privata dei proprio ricordi.

Pur ruotando attorno a una malattia neurodegenerativa molto invalidante, la narrazione riesce a non farsene risucchiare restituendo la vita di Sunita con toni delicati e poetici.

Proseguiamo il nostro viaggio con un’altra figura femminile protagonista di uno dei platform più belli e celebrati degli ultimi anni. Stiamo parlando di Madeleine, la protagonista di Celeste. Madeleine soffre di attacchi di panico e di ansia, disturbi che tendono ad affiorare nella vita di un individuo in prossimità di cambiamenti più o meno traumatici.

Attraverso alcuni espedienti narrativi e di design decisamente poco comuni nei platform, Matt Thorson, l’autore del gioco, riesce a dare vita sia all’ansia che al rimedio. Nel suo percorso di ascesa verso la vetta del monte Celeste, Madeleine si confronterà con un doppelgänger oscuro che farà di tutto per scoraggiarla, e a nulla serviranno i tentativi di evitamento da parte della protagonista che, anzi, provocheranno attacchi di panico da alleviare grazie al respiro e alla visualizzazione di una piuma.

Celeste ha il grandissimo pregio di coniugare una narrazione profonda e dai temi importanti con un platform “puro” da cui non ti aspetteresti altro che salti, e quando narrativa e gameplay sono così ben integrati si può solo applaudire. 

Ben altro tono è quello evocato da Hellblade: Senua’s Sacrifice, forse il videogioco che finora ha affrontato in maniera più cruda e scientifica le malattie mentali, in particolare la schizofrenia. L’esperienza di Ninja Theory spinge il giocatore nei meandri della mente di Senua, una guerriera pitta impegnata nel viaggio verso Helheim, il regno dei morti della mitologia norrena, al fine di resuscitare l’amato Dillion.

In genere chi è afflitto da schizofrenia sente nella propria testa voci invasive che lo portano a cambiare atteggiamento da un istante con l’altro. Ora, se provate a calzare un buon paio di cuffie, spegnere le luci e far partire Hellblade: Senua’s Sacrifice, saranno sufficienti pochi minuti per farsi un'idea abbastanza precisa di cosa prova uno schizofrenico. E non è piacevole. Le voci registrate grazie alla tecnica binaurale sono estremamente disorientanti, e assieme alle allucinazioni e ai continui flashback mettono il giocatore in uno stato di ansia e stress.

Hellblade ha ricevuto finanziamenti dall’ente di beneficenza Wellcome Trust, e i suoi creatori hanno lavorato a stretto contatto con Paul Fletcher, neuroscienziato esperto di psicosi in carica presso l'Università di Cambridge. In un'intervista, lo stesso Fletcher ha spiegato che:

Volevamo rappresentare i sintomi, le voci e le allucinazioni, ma anche andare sotto la superficie ed esplorare ciò che sappiamo sulla normale percezione. Tutti tendono a credere di avere una chiara rappresentazione della realtà, ma la maggior parte delle volte le nostre menti la stanno inventando seguendo una specie di allucinazione controllata. Anche questa idea è profondamente radicata nel gioco: il giocatore diventa sensibile agli indizi visivi e alle illusioni che lo circondano mentre avanza nel mondo.

Scavando ancora più a fondo tra i meandri della mente umana arriviamo alla storia di Renée, la protagonista di The Town of Light.

Renée è una ragazza psicologicamente turbata - una volta l’avrebbero definita “una matta” - che non riesce a superare le proprie paure e che parla di sé in terza persona. Dopo essere stata internata ancora sedicenne nel manicomio di Volterra con l’accusa di un comportamenti dannosi per sé e per gli altri, la donna farà ritorno molti anni dopo in quell’edificio ormai abbandonato per rivivere attraverso i ricordi quegli anni terribili fatti di violenze fisiche, maltrattamenti e disordini sessuali. La storia di The Town of Light si basa su fatti reali ed è ambientata, appunto, nell’ex manicomio di Volterra chiuso nel 1978 grazie alla legge Basaglia. Con una visuale in prima persona il giocatore è chiamato a ricostruire il passato di Renée attraverso l’esplorazione e la risoluzione di semplici enigmi.

Gli interni del manicomio ricostruiti da LKA risultano estremamente realistici, e tra stanze piastrellate, docce comuni e ambulatori contribuiscono a immergere il giocatore in una gabbia di oppressione e isolamento. The Town of Light restituisce un’analisi complessa e per niente semplicistica del disagio psichico, dove una volta tanto l’orrore non viene usato come cliché narrativo ma risponde alla cruda realtà.

Altro gioco che consuma buona parte della sua breve durata (un paio di ore) in un ospedale psichiatrico è Neverending Nightmares, sviluppato da Matt Gilgenbach nel 2014 e recentemente uscito anche su Switch. Lo stesso Gilgenbach nelle varie interviste non ha mai nascosto di avere problemi con la depressione e il disturbo ossessivo-compulsivo, e di essere passato per pensieri intrusivi di vario genere.

Pensieri che fanno capolino nel gioco sia attraverso rappresentazioni esplicite che come risultato dell’atmosfera generale. Il protagonista di Neverending Nightmares, Thomas, è costretto ad attraversare una serie di incubi con il suo pigiama a quadretti e i piedi scalzi, cercando una via d’uscita verso uno dei tre finali possibili.

L’esplorazione è l’elemento chiave del gioco; orientarsi non è facile e, a volte, pare di essere intrappolati in un loop senza fine. Al netto di pochissimi dialoghi quasi tutta la narrazione del gioco è nelle mani dell’ambientazione a base di immagini scure che paiono tratteggiate da una penna Bic, in contrasto col rosso del sangue, e assieme alle basiche meccaniche stealth mostrano al giocatore le spire del disturbo ossessivo-compulsivo. Lo stesso autore ha spiegato che:

Durante le ore più buie mi sentivo completamente solo, e nessuno capiva quello che stavo passando. Era come stare all’inferno. Attraverso il gioco spero di riuscire a raggiungere persone come me per far sapere loro che non sono sole, e che ce la possono fare

Dalla lista dei personaggi di videogiochi che meglio incarnano il tema della depressione non posso escludere Susan Ashworth, la gattara di The Cat Lady, avventura horror dalle meccaniche punta e clicca sviluppata dall’autore indipendente Remigiusz Michalski.

La depressione è uno dei disturbi mentali più frequenti e diffusi, e va ben oltre la tristezza passeggera. Il disturbo depressivo include disperazione, difficoltà ad alzarsi dal letto, sentimenti di inferiorità e persino idee suicide. Conseguentemente, le tematiche affrontate nel gioco sono importanti e delicate, e oltre alla depressione indagano i rapporti di coppia, la maternità, la disabilità e la violenza trascinando il giocatore in un’anonima periferia dove è difficile trovare anche un solo briciolo di  bellezza.

Seppure attraverso mezzi tecnici e di design limitati, Michalski ha svolto un egregio lavoro dando vita a personaggi credibili senza rinunciare a qualche punta di humor. The Cat Lady è un viaggio duro dentro la mente di una donna sofferente; ricco di simbolismi, sospeso tra sogno e realtà, vita e morte. Nonostante ciò, è un viaggio propositivo, e rappresenta quasi un manuale di auto-aiuto.

Chiudo questa carrellata con un titolo apparentemente più leggero degli altri, dove il disturbo della sindrome di Asperger che affligge River, la moglie di Johnny in quel capolavoro assoluto che è To the Moon, non viene esplicitamente accennato.

Per quei pochi che non la conoscessero, To the Moon è un’avventura in pixel art creata dello sviluppatore Kan Gao. Grazie ad una futuristica tecnologia in grado di riscrivere il passato nella testa delle persone, saremo partecipi di un viaggio a ritroso nel tempo lungo le tappe fondamentali della vita di Johnny Wyles, che in punto di morte desidera esaudire un ultimo desiderio: andare sulla Luna.

Attraverso il potentissimo espediente narrativo dei ricordi (eh sì, ancora loro) passeremo in rassegna la vita dell’uomo tra una madeleine proustiana e l’altra, fino a fare la conoscenza di River, che di To the Moon è la vera protagonista.

River è una donna dai comportamenti bizzarri e apparentemente inspiegabili. Tra questi, l’abitudine di realizzare continuamente origami a forma di coniglio e disseminarli ovunque; la passione per l’inseparabile pupazzo di ornitorinco e per il faro da lei chiamato "Anya".

Tutti questi comportamenti troveranno una spiegazione nell’incontro con il dottor Lee e nella citazione di un libro di Tony Attwood, considerato il massimo esperto mondiale di questo disturbo dello spettro autistico. Gli individui portatori della patologia presentano una persistente compromissione delle interazioni sociali, schemi di comportamento ripetitivi e stereotipati, attività e interessi in alcuni casi ristretti. Ecco allora spiegate tutte le ossessioni di cui sopra, rispetto alle quali la stessa River fornirà la sua personale interpretazione in uno dei dialoghi più belli della storia dei videogiochi:

- River: “Non mi dispiacerebbe, solo per una volta, avere lo stesso nome che hanno gli altri. Come quelle luci nel cielo. Sembrano tutte uguali da qui, ma questo non le rende meno belle ”

- Johnny: “Eh è vero. Comunque che cosa credi che siano quelle stelle lassù? ” [...]

- River: “Non l’ho mai detto a nessuno, ma ho sempre creduto fossero dei fari. Bilioni di fari bloccati all’estremità del cielo. ”

- Johnny: “Dev’esserci molta confusione lassù.”

- River: “Invece no. I fari possono vedersi tra loro ma non sono in grado di comunicare, perché sono tutti troppo distanti. Tutto quello che possono fare è far brillare le loro luci da lontano.  Ecco che cosa fanno. Fanno brillare le loro luci agli altri fari, e a me.”

- Johnny: “Perché te?”

River: “Perché un giorno io aiuterò uno di loro”.

La prossima volta che guardate una stella pensate a quanto sono instabili e sole. Se provate ad avvicinarne una, sono sicuro che vi regalerà un pò della sua luce.

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