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The Pirates of Dark Water: “Two is megl che One”

The Pirates of Dark Water: “Two is megl che One”

Chi fra di voi non è più particolarmente giovane si ricorderà senz’altro un noto spot che andava di moda circa una trentina di anni fa, nel 1994. Un giovane Stefano Accorsi, insieme al suo fido compare, tentava di rimorchiare in spiaggia quelle che sembravano essere due turiste straniere. Con un inglese che definire maccheronico è poco, Accorsi tentava di far colpo sulle ragazze decantando le qualità del mitico Maxibon, gelato che sicuramente tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo provato o quantomeno visto.

Descrivendo la doppia anima del Maxibon, da un lato cioccolato croccante e dall’altro biscotto, il giovane Accorsi in versione farfallone terminava esclamando “two is megl che one”, come a dire che due gusti sono meglio di uno.

Sorvolando su quanto fosse stupido quello spot e quanto fosse abbastanza irritante il personaggio di Accorsi, quello slogan maccheronico si adatta perfettamente a The Pirates of Dark Water.

Prima di arrivare al titolo in questione, devo però partire dal principio.

Fin da quando ho scoperto il mondo dell’entertainment videoludico, ho sviluppato una sorta di ossessione per i picchiaduro a scorrimento, che in quegli anni spuntavano praticamente come funghi sia nelle sale giochi che sulle console dell’epoca.

Credo di avere più o meno consumato le cartucce di Streets of Rage 2, il primo Golden Axe, Alien Storm e Teenage Mutant Ninja Turtles: The Hyperstone Heist sul mio fidato Mega Drive, e di aver speso decine di monetine nei cabinati di Final Fight e Double Dragon.

Pur essendo titoli caratterizzati da una durata limitata (generalmente una o due ore), avevano il grande pregio di essere rigiocabili praticamente all’infinito, fattore che, in un periodo in cui si era bambini e quindi se andava bene arrivavano un paio di giochi all’anno in occasione delle feste comandate, poteva risultare fondamentale. Semplicemente, mi divertivo a finire i titoli con tutti i personaggi a disposizione (che generalmente differivano tra di loro per caratteristiche quali forza, velocità e attacchi) cercando ogni volta di migliorare il punteggio. Salvo l’utilizzo di codici e trucchi vari, si sudava per arrivare nelle fasi finali del gioco, quando si affrontava il mega boss di turno.

Il genere dei picchiaduro a scorrimento è andato poi a morire dopo la fine della generazione dei 16 bit e l’avvento di quella a 32 e 64 bit: era un filone che aveva fondamentalmente detto tutto e che, al contrario dei picchiaduro a incontri, non seppe evolversi, se non declinando alcune delle caratteristiche del genere in titoli però dall’impronta molto più action, dove non ci si limitava solamente a mazzuolare con violenza tutti i nemici che comparivano sullo schermo.

Grazie all’emulazione ho poi potuto scoprire titoli che, pur essendo ormai dei classici del genere, non avevo provato all’epoca, quali Knights of the Round, The King of Dragons, Captain Commando, The Punisher, fino ad arrivare a cose che non avrei mai pensato neanche lontanamente di provare, come, ehm, Sailor Moon.

Comunque, adesso arriviamo finalmente a The Pirates of Dark Water.

Venni a conoscenza di questo gioco grazie a quella che per me all’epoca era una vera e propria Bibbia, Game Power, la mitica rivista cartacea che compravo ogni mese, leggevo e rileggevo fino allo sfinimento. Sul numero trentuno, del settembre 1994, la celebre rivista, con in copertina Mortal Kombat II, conteneva proprio la recensione del gioco targato Sunsoft. Nonostante la recensione si esprimesse in toni assolutamente positivi, il voto finale fu un non troppo convincente settantotto colorato di giallo (i voti della rivista erano espressi in centesimi e colorati in maniera semaforica: fino a cinquantanove il colore utilizzato era rosso, cioè un gioco pessimo e quindi da evitare, dal sessanta al settantanove veniva invece utilizzato il giallo, generalmente per giochi nella media, mentre dall’ottanta ai cento si utilizzava un verde che indicava un gioco molto buono o ottimo, addirittura eccellente se arrivava al cento, come nel caso di Super Mario 64 o del famoso centocinque usato per premiare Toh Shin Den).

L’unica pecca del gioco, secondo il recensore, era la scarsa longevità a difficoltà normale, per il resto si piazzava assolutamente sui canoni del genere, a cominciare dai tre protagonisti differenti: Ren, bilanciato sia dal lato della forza che da quello della velocità, con un calcio rotante come mossa speciale; Ioz, fortissimo ex pirata dotato di un pugno devastante; Tula, una guerriera meno resistente ma velocissima e che aveva a disposizione una sorta di campo elettrico per fulminare gli avversari. Il gioco comprendeva otto livelli, e al termine di ognuno il giocatore si trovava di fronte a una sorta di guardiano, che custodiva una parte di un leggendario tesoro che i tre dovevano recuperare.

Un paio di settimane dopo, ebbi modo di provare il gioco, in esposizione in un negozio della catena Mediaworld nelle tipiche postazioni dell’epoca. Giocai per circa una mezz’ora, trovandolo assolutamente divertente e piacevole, nonostante non avesse praticamente nulla di diverso rispetto alle pietre miliari targate Sega, Capcom o Data East.

Così misi The Pirates of Dark Water nella mia personale lista dei desideri, e diversi mesi dopo, in occasione del mio compleanno, giunse finalmente nelle mie mani sudaticce e bramose di giocarlo.

Una volta infilata la cartuccia nello slot della console e schiacciato il tasto Power, un po' come il povero ragionier Ugo Fantozzi, rimasi in stato di morte apparente per più di quattro ore. The Pirates of Dark Water era un gioco completamente differente da quello che avevo provato qualche mese prima. Per scrupolo, andai a riprendermi il numero settembrino di Game Power per confrontare le immagini sulla rivista con quelle che vedevo a schermo.

Infatti, al posto del picchiaduro a scorrimento che avevo provato, mi trovavo di fronte a un platform a scorrimento orizzontale. Scoprii il mistero solo tempo dopo, poiché all’epoca Internet non esisteva (o forse esisteva ma era appannaggio di pochissimi, comunque non esisteva Google), inviando una missiva alla mia seconda Bibbia, Mega Console, che pubblicò una risposta nella sezione FAQ: in pratica, Sunsoft aveva pubblicato due versioni diverse del gioco: quella Snes era appunto il picchiaduro a scorrimento di cui avevo letto la recensione su Game Power e provato al Mediaworld, mentre la versione Mega Drive era un platform a scorrimento laterale con qualche leggerissimo elemento RPG.

Comunque, ormai mi dovevo tenere quel gioco e farmelo andare bene.

In verità, superato (almeno parzialmente) lo shock iniziale, The Pirates of Dark Water non era poi niente male. Una volta scelto uno dei tre personaggi, si procedeva lungo i livelli, eliminando nemici ed evitando ostacoli, anche se, a differenza dei platform più canonici, non si poteva semplicemente tirare dritto fino alla fine del livello, ma era necessario soddisfare una sorta di incarico per poter andare avanti (quasi sempre si trattava di raccogliere qualcosa, ad esempio un certo numero di monete).

Il gioco era strutturato su diversi livelli, con ambientazioni abbastanza classiche: foreste, grotte, villaggi, fino a giungere, ovviamente, alla nave dei pirati! I personaggi, lungo il tragitto, potevano raccogliere un gran numero di oggetti da utilizzare poi al bisogno, fra cui cibo, cuori per ripristinare completamente la saluti, alcune armi secondarie e pozioni che rendevano momentaneamente il proprio personaggio invulnerabile, utilissime per affrontare il boss di turno.

Nonostante il gioco risultasse leggermente frustrante in alcuni passaggi, al termine del livello era disponibile una password che consentiva di non ripartire da capo ogni volta spenta la console.

Devo dire che, pur avendo mitigato la delusione, poiché tutto sommato il gioco era di buon livello e mi aveva intrattenuto fino alla fine, mi rimase l’amaro in bocca per diverso tempo, fino a quando riuscii tramite emulazione a giocare alla versione SNES.

Tra l’altro, scoprii qualche tempo dopo che i giochi in questione sono basati su una serie animata di Hannah & Barbera, terminata prematuramente dopo soli ventuno episodi, trasmessi anche qui in Italia all’interno del contenitore pomeridiano per bambini Solletico. Paradossalmente, proprio il gioco per Mega Drive costituiva una sorta di “episodio finale”, che chiudeva le vicende del cartone animato, anche se, non avendo mai seguito la serie, non ci metterei la mano sul fuoco.

Alla fine della fiera, ricordo The Pirates of Dark Water più per l’equivoco causato dai due giochi differenti che per altro, anche se devo dire che entrambi sono più che validi. Soprattutto sul secondo, il picchiaduro per Snes che tanto bramavo, vale la pena di farci un giro ancora oggi.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai pirati, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

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