Outcazzari

Passione passato

Ogni volta che salta fuori un film, una serie TV, un videogioco, un libro, una qualsiasi cosa che contenga una grossa dose di omaggi al passato, parte il coro di tromboni che si lamentano perché le citazioni hanno rotto le palle, perché sono contenitori vuoti buoni solo per ammiccare al publico "anziano" e via di questo passo. E, nella maggior parte dei casi, i tromboni si sbagliano. Lo dicono i fatti. Lo dice il fatto che una serie come Stranger Things riscuota un successo enorme non (solo) grazie ai fanatici che riconoscono tutti i poster in casa dei Byers e le citazioni più o meno esplicite, ma anche (soprattutto) grazie a chi quelle cose neanche si accorge che ci siano, perché non se le ricorda, perché non ci fa caso, perché all'epoca non era ancora nato. Stranger Things piace ai ragazzini e alle ragazzine, che appassiona con le sue storie, i suoi personaggi, la sua atmosfera, il suo umorismo. Tutto lo strato di omaggi e citazioni neanche lo colgono, se non in maniera appena superficiale, e diventa irrilevante.

O, perlomeno, è così che immagino che vada, e ci piazzo dentro anche un po' di immedesimazione, se penso che, quando ad essere ragazzino ero io, mi sciroppavo il cinema di Steven Spielberg, George Lucas, Sam Raimi, Martin Scorsese, Robert Zemeckis, e non mi rendevo minimamente conto di quanto fosse zeppo fino al midollo della cultura pop che avevano amato loro da ragazzini, quando io nemmeno esistevo. Le storie di Indiana Jones erano ambientate nel passato che aveva popolato la fantasia di Lucas e Spielberg da giovani, ma per me erano semplicemente ambientate nel passato. E andava benissimo così. Ogni tanto me lo chiedo: gli adulti di quegli anni, i miei genitori, di fronte a uno Star Wars, alla maniera brutale con cui Zemeckis ricalca intere scene da Hitchkock, a Sam Raimi che piazzava gli scheletri di Ray Harrausen nei suoi film, si smarronavano come chi non ne può più di ascoltare il synth e osservare i colori fluo nel cinema di questi anni? Avevano l'impressione che fossero opere altrettanto vuote, omaggi stucchevoli, nostalgia di bassa lega? Boh?

Di sicuro, anche quando quegli omaggi amorevoli ho imparato a conoscerli, perché nel frattempo ho scoperto ciò a cui si agganciavano, non mi hanno mai dato le stesse sensazioni che mi dà, nel bene e nel male, osservare il modo in cui gli anni Ottanta e Novanta hanno invaso l'immaginario collettivo di questo millennio. È normale, perché si tratta di emozioni figlie dell'esserci cresciuto, in quei decenni, e non è possibile riprodurle artificiosamente. Quel che importa, però, è che quando diventa un problema, è un problema inesistente, o quantomeno irrilevante.

Fra le tante cose che ho fatto durante le vacanze estive, c'è stato il mettere le mani su Button City, una piacevolissima avventura pubblicata a fine luglio su PC e Switch, e giocarci assieme a mia figlia. Anzi, "giocarci", perché in realtà ho lasciato che fosse lei a tenere il controller in mano e io mi limitavo ad accompagnarla, a fare l'allenatore da divano. Commentavamo e ci gustavamo assieme gli eventi, discutevamo delle scelte da fare nei dialoghi e ci davamo i turni nel leggerli ad alta voce, quei dialoghi. Ci siamo divertiti, appassionati, e nella parte finale addirittura emozionati, al punto che c'è stato un momento in cui avevo la voce quasi rotta dal pianto e faticavo a leggerle certi dialoghi. L'aver vissuto l'esperienza assieme a lei è parte del motivo per cui mi sono emozionato fino a quel punto? Probabilmente sì, ed è una bella testimonianza di quanto possa essere fantastico usare i videogiochi come punto di contatto fra le generazioni, invece che come strumento per allontanarle.

Ma di Button City ho chiacchierato ampiamente in un episodio di Outcast Weekly che ripropongo qua sotto. Ci torno perché è attraverso quell'esperienza che mi sono ritrovato, per l'ennesima volta, a riflettere sulla questione degli omaggi al passato. Button City racconta una classica storia di ragazzini alle prese con qualcosa di più grande di loro, un qualcosa che nel grande disegno è relativamente piccolo ma che nel loro sguardo diventa un'avventura enorme da affrontare con coraggio. In questo, richiama molto direttamente i classici film per ragazzi degli anni Ottanta, di scuola Amblin, e per una persona della mia età è impossibile non pensarci. Non solo. Ha uno stile estetico, una regia, delle scelte visive che rievocano apertamente i manierismi da anime, portando alla memoria un certo tipo di serie animata giapponese con cui sono cresciuto. Per una persona della mia età (e con il mio bagaglio culturale), è impossibile non cogliere il riferimento. Non solo. È ambientato in una cittadina di provincia nella quale la vita di ragazzini e ragazzine ruota attorno alla presenza di una sala giochi, che propone tutte le ultime novità e che, anche sulla base dei giochi presenti, colloca forse temporalmente il racconto da qualche parte verso la fine degli anni Novanta. O forse in un "non tempo" bizzarro nel quale le sale giochi non sono mai morte e/o ospitavano certi giochi da nuovo millennio già durante gli anni Ottanta. Insomma, per una persona della mia età, è inevitabile cogliere il riferimento a un luogo del divertimento fondamentale per la mia giovinezza ma che oggi, sostanzialmente, non esiste più, o comunque è confinato a spazi molto specifici, fra musei e centri commerciali. Non solo. All'interno del gioco è possibile mettersi a giocare coi vari videogiochi che si "incontrano" nel corso della storia. A un certo punto, passi letteralmente mezz'ora a giocare ad altro, una visual novel che riproduce scherzosamente l'approccio estetico, le convenzioni e i cliché del genere, con grande gusto e divertimento. Io non frequento molto quel filone di videogiochi ma lo conosco e ho colto l'omaggio.

Tutti questi aspetti sono senza alcun dubbio parte dei motivi per cui ho apprezzato Button City. Ma sono importanti? Sì? No? Vai a sapere. Di sicuro, non sono fondamentali.

Mia figlia ha adorato Button City. Le è piaciuto giocarci assieme a me, certo, ma soprattutto le è piaciuto giocarci. Si è appassionata al racconto, voleva aiutare quei ragazzini, voleva scoprire come sarebbe andata a finire, voleva passare il suo tempo giocando ai "videogiochi nel videogioco" e non ha mai, neanche per un istante, capito di stare perdendosi un sacco di riferimenti estetici, musicali, culturali a cose che nemmeno sa che esistano. Era immersa in un altro mondo, ne aveva compreso la logica, se lo godeva. Per lei, Button City è bellissimo così, non le serve altro. Ed è giusto così. Per me, Indiana Jones era bellissimo così, non mi serviva altro. Ed era giusto così.

Button City nell’interpretazione di mia figlia.

Button City nell’interpretazione di mia figlia.

A settembre abbiamo abbondantemente ripreso il ritmo coi podcast, presentandoci regolarmente con almeno tre registrazioni settimanali e svariati extra. Sono molto felice di come le novità in termini di assetto hanno influenzato la nostra produzione e mi sembra che stiamo riuscendo a proporre quantità, qualità e varietà in misura abbondante. Ma siamo anche riusciti a continuare a macinare un buon numero di contenuti scritti, inseguendo però il mantra dello scrivere come ci pare, di quello che ci pare, senza sentirci mai obbligati in una direzione o nell'altra. Insomma, questo nuovo Outcast che sta piano piano nascendo e sviluppandosi mi piace parecchio. E a ottobre torna ad accogliere le Cover Story, con un tema assolutamente ovvio e prevedibile ma non per questo meno stimolante. Il tema ve lo suggerisco in maniera molto “laterale” con l’immagine in apertura di questo articolo, la Cover story la presentiamo lunedì.

Nel frattempo, buon weekend.

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