Tutte le ficate del Future Film Festival 2017
Ed anche quest’anno si è concluso il Future Film Festival, giunto alla sua diciannovesima edizione. Cos’è il Future Film Festival (d’ora in poi ‘FFF’)? Tautologicamente, è un festival cinematografico, appunto, ma non solo. Nato nel 1999 a Bologna, il FFF si pone sin dalla sua nascita, cito Wikipedia, come una manifestazione “di portata internazionale, dedicata all’animazione tradizionale e digitale e agli effetti speciali”. Per tradurla col mio linguaggio prolisso, invece, si tratta di un festival piccino picciò, come è poi la stessa Bologna: piccola, ben organizzata e piena di ficate. Il FFF racchiude infatti a sé, oltre ad una serie di proiezioni di film, spesso d’animazione più o meno sperimentali sotto il profilo visivo e narrativo, anche workshop, conferenze e contest su tutto quello che riguarda il mondo dell’entertainment visivo. Quindi, sia argomenti magari anche inflazionati, come videogiochi, serie TV e realtà virtuale, sia laboratori, toh, di stop-motion. Quest’anno ho avuto il piacere di seguire, per la prima volta, il FFF 2017 per gli amici di Outcast, e quello che segue è una specie di recap abbastanza confusionale, che racchiude opinioni soprattutto sui film presentati – ché sì, sono comunque il fulcro della manifestazione.
Innanzitutto, l’organizzazione: vivo a Bologna ormai da qualche mese, quindi muoversi non è stato un problema, anche perché il festival è stato gestito alla perfezione. Tanti giovani volontari, spettacoli e conferenze fissate ad orari coerenti con la loro rilevanza e, soprattutto, una grande attenzione ai dettagli. L’intero evento si è snodato fondamentalmente attorno alla Cineteca di Bologna, con le principali proiezioni adibite alle due sale presenti al suo interno e con la piazzetta antistante, la Pier Paolo Pasolini, dedicata alle conferenze. Ad avvalorare l’organizzazione del FFF c’è poi il caso di Have a nice day, film d’animazione cinese dato in programmazione per certo ma che, proprio all’ultimo, i distributori hanno deciso di non concedere al festival, in virtù dell’intenzione di portare la pellicola in questione in sala nei prossimi mesi; bene, nonostante il così poco preavviso, con la comunicazione arrivata praticamente a ridosso della manifestazione, lo staff del festival è riuscito a sostituire la proiezione originale con quella di Seoul station, mica cazzi – ma su questo ci torneremo più avanti. Poi gente gentile, orari tutto sommato rispettati, tanta partecipazione; insomma, a parte i contenuti proposti, che pure sono importanti, il FFF si è rivelato per quello che è, ovvero un festival piccolo piccolo, come scritto in precedenza, ma gestito parecchio bene.
Comunque, i film presentati al FFF si snodano essenzialmente in quattro categorie: quelli in concorso per il principale premio della manifestazione (il Platinum grand prize), quelli presentati fuori concorso, le Follie notturne (delle robe sperimental-sceme) e i Focus on Apocalissi a basso costo, cioè pellicole horrorifiche di varia durata e caratterizzate appunto da un budget ristretto. Alla fine della fiera, quest’anno il Platinum grand prize l’ha conquistato A monster calls, in arrivo in Italia il 18 maggio col titolo Sette minuti dopo la mezzanotte, diretto J.A. Bayona (figlioccio di Guillermo del Toro noto anche per aver diretto The Orphanage, The Impossible e pure i primissimi due episodi di Penny Dreadful), con la seguente argomentazione: “Commovente e coinvolgente racconto di formazione ed elaborazione del lutto, realizzato con grande talento visionario. Bayona usa in modo fluido la tecnica mista, animazione e live action, sovverte i canoni della favola classica, ribadisce la necessità della immaginazione come mezzo di superamento di paura e dolore”. Bene, diciamo che per sommi capi mi ci ritrovo, seppur con qualche obiezione: innanzitutto, quello di A monster calls era il nome più grosso in gara, quindi già a scatola chiusa mi aspettavo avrebbe avuto grosse chance di vittoria, come poi è accaduto; eppure, nonostante quel pizzico di hype messomi addosso, il film mi ha lasciato un po’ così così, una volta uscito di sala. Nei prossimi giorni uscirà sulle nostre pagine la recensione di A monster calls curata da Andrea Maderna, che magari mi smentirà, ma a me il film è sembrato semplicemente un buon racconto di formazione che strizza un po’ troppo l’occhio al Labirinto del Fauno dello stesso Del Toro, e che funziona soprattutto nella prima parte, perdendosi poi in una serie di lungaggini atte a preparare la costruzione di un finale sì riuscito, ma che comunque risulta un tantino meccanico e fin troppo diluito nell’atto pratico, pur concludendosi in modo toccate. Al FFF, tra i film in concorso, ho visto decisamente di meglio, ecco. Tipo Le jeune fille sans mains, che non a caso si è aggiudicato una menzione speciale da parte della giuria (composta, a proposito, dalla giornalista Arianna Finos, dal regista Michele Vannucci e dal giornalista e regista Filippo Vendemmiati).
Le jeune fille sans mains (La ragazza senza mani in un eventuale adattamento italiano) è un film d’animazione atipico, che si rifà a una tra le fiabe più cupe dei fratelli Grimm, narrandola attraverso uno stile tutto suo; è infatti una pellicola disegnata quasi interamente a mano, con una tecnica parecchio simile a quella degli acquerelli, sorretta da dialoghi essenziali e da musiche post-rock davvero carine (tipo che, dopo la proiezione, sono tornato a casa ad ascoltarmi, ad anni di distanza, un disco degli Explosions in the Sky, tanto la colonna sonora del film mi ha galvanizzato). Le jeune fille sans mains ha poi questo approccio disincantato tipico diversi film d’animazione europei, tanto che a tratti mi ha ricordato anche La tartaruga rossa, seppur con le dovute differenze del caso – qui il tutto è decisamente più angosciante e anche lo stile, come detto, è diverso. Una delle cose che più mi sono piaciute di questo FFF, insomma.
Appena mezzo gradino più in basso nella mia classifica personale c'è invece un film, ammesso che lo si possa definire tale, fuori concorso. Lupin III: The Blood Spray of Goemon Ishikawa. Direte voi: l’ennesima riproposizione di Lupin, magari col piglio sognante de Il castello di Cagliostro? Manco per niente. Diretto da Takeshi Koike (uno con alle spalle robe come Afro Samurai, The Boy and the Beast e Trigun: Badlands Rumble), si tratta di un mediometraggio diviso in due parti, appunto come se fossero due episodi di un anime, che racconta una delle classiche storie di Lupin III, dando però particolare focus a Goemon. La peculiarità è data soprattutto dalla cifra stilistica adottata, che richiama lo stile crudo di uno dei precedenti lavori di Koike, cioè Afro Samurai. In questo Lupin III: The Blood Spray of Goemon Ishikawa, si vede infatti, oltre al classico e sempre piacevole stilema con cui si dipanano gran parte delle storie del ladro gentiluomo, sangue e mazzate a profusione. Tutte animate benissimo, con una regia perfetta nel cadenzare ogni attimo, ogni cranio fracassato, ogni arto tagliuzzato. Non c’è nulla di nuovo sotto il profilo narrativo, sia chiaro, ma è fatto benissimo, talmente tanto che l’unico disappunto è stato l’aver consumato la pellicola in appena un’ora scarsa. Fortunatamente non si tratta del primo lavoro su Lupin con questo approccio curato da Koike, dato che qualche anno fa ha realizzato qualcosa di analogo, concentrandosi però su Jigen.
A parte questo, devo ammettere che gran parte delle proiezioni a cui ho assistito mi hanno lasciato più che soddisfatto, indipendentemente dal loro essere in concorso o meno. Tra i film in gara, ad esempio, segnalo ancora Ethel and Ernest, toccate film d’animazione tratto dal fumetto di Raymond Briggs (Quando soffia il vento) che narra la vita dei genitori di quest’ultimo; un racconto lineare, senza grandi sussulti, ma davvero emozionate per come riesce a restituire a schermo i sacrifici fatti dalla working class, inglese in quel caso ma mi sentirei di allargarla a gran parte dell’Europa occidentale, che ha reso grande il rispettivo paese per buona parte del secolo breve. Altra roba in gara parecchio interessante è Liza, the Fairy-Fox, una commedia-romantica ungherese completamente fuori di capoccia, che si porta con sé quel tipo di comicità caratteristica del nord-est Europa; forse le manca quel quid che la caratterizzi, soprattutto nella prima parte, ma appena ingrana scivola via che è una bellezza, tanto da far riuscire a ridere persino uno come me, da sempre refrattario a questo tipo di comicità.
Fuori competizione, ma degni di menzione, sono anche altri due film. Il primo è A Silent Voice, un coming of age in formato anime forse eccessivamente lungo (129 minuti), che ha soprattutto il merito di riuscire a raccontare snodi fondamentali dell’adolescenza in modo mai banale; e se permettete, non è mica poco, soprattutto in un periodo in cui gli stereotipi, in questo filone cinematografico, si rivelano sempre più soverchianti. L’altra pellicola che segnalo è Seoul Station, prequel di quel Train to Busan (campione d’incassi che, speriamo, arrivi prima o poi anche in Italia) che ha fatto strappare le mutande a chi ha avuto la fortuna di vederlo; io manco ancora all’appello, per esempio. Comunque, questo Seoul Station, che è diretto dallo stesso regista, è la più classica dichiarazione d’amore nei confronti del cinema di zombie di George Romero, reinterpretato in quest’occasione attraverso un tipo di animazione plasticosa simil cel-shading tutto sommato gradevole. Non è chissà cosa, eh, però è narrato bene, tiratissimo in certi suoi momenti di concitazione e nel complesso girato parecchio bene. Quello che voglio nuovamente segnalare riguarda però, come anticipato in apertura, l’organizzazione del FFF, che è riuscita a provvedere a un imprevisto non voluto, come l’annullamento della proiezione di Have a nice day, con un film tanto apprezzato all’estero come questo. Chapeau.
Purtroppo il tempo che ho dedicato alle conferenze è stato decisamente inferiore rispetto alle proiezioni. Non tanto perché poco interessanti, quanto per mancanza di tempo, sovrapposizione con i film o perché, più semplicemente, durante il weekend il meteo è stato inclemente in quel di Bologna. Su qualcosina ho però buttato l’occhio. Tipo al Robot characters, dove Gabriele Niola ha accompagnato il pubblico, con dovizia di particolari, lungo una carrellata di opere e lavori che hanno raccontato in questi anni gli androidi e i robot più in generale, da Astroboy fino a Westworld. Altrettanto interessante è stata la conferenza curata da Matteo Marino, che ha presentato il suo nuovo libro Il mio secondo dizionario delle serie TV cult, successore, appunto, del suo precedente Il mio primo dizionario delle serie TV cult; la conferenza, che ha snocciolato alcuni punti chiave del libro, non si è assolutamente rivelata come la classica carrellata di luoghi comune sui telefilm di successo, ma ha anzi interpretato diversi di essi sotto una prospettiva non banale – ad esempio è riuscito a farmi rivalutare, per diversi aspetti, la serie di Sex and the City, una roba che, ammetto, ho lasciato per strada dopo una manciata di episodi.
Tirando le somme, questo FFF 2017 si è rivelato un’esperienza davvero interessante. Soprattutto, è riuscito a sorprendermi a più riprese. Sia chiaro, non sono mica il più smaliziato fruitore di film d’animazione, anzi, però il FFF è riuscito a darmi la prova che, oltre al mare magnum di prodotti fin troppo inflazionati di cui siamo circondati, c’è qualcosa di realmente diverso, e di bello, anche in quella che appare come una nicchia cinematografica; basta solo avere la pazienza di cercare, e lo staff del festival ha dimostrato come questo sia vero, dando una grossa mano al proprio pubblico in tal senso, grazie ad una selezione di film mai banali, insieme a tutta una serie di eventi dai temi variegati. Un appuntamento piccolo, quello del Future Film Festival, ma a cui vale la pena dedicare almeno una giornata, sempre; e questa edizione ne è stata la conferma.