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I (nostri) migliori anni del videogioco: 1986, Wonder Boy in the Horror Pizza Restaurant

I (nostri) migliori anni del videogioco: 1986, Wonder Boy in the Horror Pizza Restaurant

Puntando la bussola verso la pagina di Wikipedia dedicata alle uscite videoludiche del 1986, si raggiunge uno scrigno zeppo di tesori. La seconda metà degli anni Ottanta, a suo modo persino più “Ottanta” della prima, è cominciata sotto il luccichio di gemme del calibro di Arkanoid, Bubble Bobble (tesoro nel tesoro: se desiderate leggere un gran pezzo su Fukio Mitsuji e la sua creazione, cliccate qui), Castlevania, Kid Icarus, The Legend of Zelda, Out Run, Rampage, Rolling Thunder, Rygar, Super Mario Bros.: The Lost Levels, Uridium, Wonder Boy, giusto per citare alcuni tra i titoli che circolavano in quel periodo.

Ossi di beluga.

Che poi, oddio, non è che il 1985 o il 1987 siano stati particolarmente più aridi in termini di uscite: a guardarli con i miei occhi di oggi – gli occhi di un vecchio scoreggione – gli anni Ottanta hanno cullato gran parte dei generi che pratichiamo ancora oggi. Quel decennio, per gli svilupatori di videogiochi, è stato come una base di pan di Spagna per un pasticciere; i game designer non si sono limitati a deflorare il medium, lo hanno addirittura sfondato, per esplorarlo da ogni prospettiva possibile, godendo di uno spazio di manovra allucinante in termini creativi, e questo a prescindere da (o in virtù di?) limitazioni tecniche altrettanto allucinanti e a ridosso di un mercato tutt’altro che filantropico, che incoraggiava cloni e scopiazzature varie persino più di quello odierno, checché se ne pensi.

Detto questo, preciso che i giochini contati nel mio breve elenco non li ho spremuti proprio durante il 1986, mi sono anzi capitati tra le mani più o meno a caso nel corso gli anni successivi. Alcuni me li sono sparati sul Commodore 64 di mio zio o sul NES che condividevo con un cugino, a casa dei miei nonni. Per mettere le mani su The Lost Levels, mi è toccato aspettare addirittura lo SNES e l’uscita europea di Super Mario All-Stars nel dicembre del 1993. Per quanto riguarda invece i coin-op, beh, quelli credo di essermeli fatti quasi tutti in pizzeria.

Essì. Non bar né sala giochi: proprio pizzeria. Col fatto che sono dicembrino, ho passato quasi tutto il 1986 intrappolato nel corpo di un ragazzetto di otto anni, e comunque non è che allo scattare dei nove i miei mi abbiano proprio liberato come un fagiano. In quella fascia di età, definita dai catechisti dell’epoca come “preadolescenza” (fun fact: qualche anno dopo, diversi di loro videro effettivamente Cristo attraverso l’eroina), per me i bar e le sale giochi erano ancora un mezzo tabù: delle oasi tanto rare quanto preziose, accessibili quasi esclusivamente durante le vacanze estive al mare o in montagna.

Per il resto dell’anno passato in città, invece, bisognava un po’ arrangiarsi, cercando di nasar tartufi in contesti accessibili a carico di genitori e parentame vario, come ad esempio nei minigolf, piuttosto che nei luna park che passavano per Pasqua, o nelle aree di ristoro delle piscine comunali o dei palazzetti: grazie al cielo, in quegli anni gli esercenti infilavano i cabinati un po’ dovunque, perché ovunque perlappunto funzionavano.

Tutta questa dispersione portava noialtri ragazzini a mappare il territorio circostante con foga ingegneristica e a cercare di decifrare i movimenti dei vari coin-op. Se, ad esempio, Out Run lasciava la piscina, quasi sicuro lo ritrovavi la settimana successiva al circolo di canottaggio o al massimo al baretto del Kōdōkan. Tuttavia, difficilmente sarebbe finito in mano ai gestori dei campi da tennis, ché a quanto pare si servivano da un noleggiatore diverso, a detta di molti più fighetto (ma il tennis, si sa, signora mia). Conseguentemente, ho iniziato a iscrivermi ai corsi di sport così, a cazzo di cane, solo per muovermi meglio tra i vari cabinati. Alcuni di quegli sport, tipo il nuoto, li ho odiati fin dal primo impatto, ma ad oggi conservo un discreto ricordo delle due settimane di judo o del semestre di scherma, disciplina molto spinta dai Topolino dell’epoca, assieme al minibasket. Ora, mi rendo conto che, a metterla giù così dura, rischio di far passare quel periodo per una lunga epopea: in realtà sarà durato al massimo un paio di mesi, ché poi ho iniziato a gironzolare liberamente in bici come i tizi di Stranger Things. Però va anche detto che due anni a un ragazzino paiono quasi dieci.

Alberto e Patrizia, ancora ventenni, si cappottano col ferro veloce.

Poi, dicevo, c’erano le pizzerie, che quasi sempre ospitavano almeno due o tre cabinati. A pensarci oggi fa un po’ strano, ma in fondo, se si dà credito al folclore messo in giro da Tōru Iwatani, Pac-Man sarebbe nato da una pizza, quindi... . Naturalmente, nella mia ingenuità preadolescenziale, non avevo idea di chi fosse Iwatani, e le mie associazioni tra la pizza e i videogame si fermavano al ristorante collocato davanti alla villetta dei miei zii materni, in un quartiere residenziale periferico piuttosto carino, tranquillo e lontano dal traffico.

Il pretesto (ma anche il piacere, dai) di andare a trovare zii e cuginette mi garantiva l’accesso a quei cabinati praticamente in qualsiasi periodo dell’anno. Di fronte a un simile lusso, le console e il C64 passavano il secondo piano, surclassati dalla possibilità di giocare per ORE con dei veri coin-op. Tipo che se i compiti erano pochi, io e le mie cugine attaccavamo alle tre del pomeriggio per tirare serenamente le otto di sera, con licenze estive spinte ADDIRITTURA fino alle nove e mezza!

Durante quelle visite, mia madre aveva preso l’abitudine, dopo il lavoro, di passare a recuperarmi direttamente in pizzeria, senza nemmeno salutare la sorella, e se diceva culo ci scappavano pure una pizza d’asporto (all’epoca andavo pazzo per la lurida: un mix tra quattro formaggi, diavola, peperoni e olive nere) e un dolce alla meringa.

Nei locali di quella pizzeria mi sono quasi rotto il polso giocando ad Arkanoid; ho fatto casino con Rampage; ho imparato che il cielo di Out Run era sempre più blu di quello reale, ma anche che negli anni Ottanta, senza il macchinone, non andavi da nessuna parte, con le tipe. Soprattutto, però, ho conosciuto l’insuperabile croccantezza di Wonder Boy, a cui ho giocato e rigiocato fino all’inverosimile, imparando a gestire tutte le finezze del suo strabiliante sistema di controllo via skate (impossibile per me fare senza), dosando millimetricamente ogni manovra. In qualche modo, quel pugno di centimetri guadagnati sulla tavola permettevano a Tom Tom di arrivare a guadare Mario dritto negli occhi.

Arkanoid.

Oddio, poi ricordo con piacere di aver scoperto in pizzeria anche moltissimi altri giochi “extra 1986” come Shinobi o il primo Street FighterGhosts 'n Goblins e soprattutto Vigilante, per il quale avevo sviluppato una vera passione: la tizia rapita mi ricordava la ragazzina carina del corso di sci (sì, fatto pure quello: grandi partite a Space Harrier in baita) e a prescindere, c’era qualcosa di ipnotico nella lentezza con cui il protagonista faceva girare quei pesanti nunchaku.

Insomma, per me quel locale era l’equivalente della biblioteca di Derry per il piccolo Ben Hanscom: un luogo magico, sicuro e pieno di delizie dove rifugiarmi ogni volta che potevo. Addirittura, in un’occasione, per spiegare ad alcuni compagni delle medie la bontà di una qualche conversione da coin-op che non ricordo, me ne ero uscito tutto candido con la frase: “Giuro, è uguale: ci sono anche gli stessi suoni della pizzeria.” (grasse risate dei presenti e battute scarse tipo “una pizza al tavolo dieci”, “cameriere, una Coca”, e cose così).

Poi, con il passare degli anni, la fine delle medie e l’avvento del motorino, ho smesso di frequentare quel posto. Le giornate in pizzeria hanno finito piano piano col lasciare il posto a baretti e sale giochi, fino a diventare un bellissimo ricordo d’infanzia, associato anche al tempo passato con zii e cugine.

Questo perlomeno fino all’inverno del 2010, che si è portato via tutto quanto.

Nel febbraio di quell’anno, la sonnacchiosa cronaca nera della mia città venne scossa dal cosiddetto “delitto della testa mozzata”, un fattaccio partito da una faccenda di prestiti e ricatti e finito in omicidio, con tanto di smembramento, decapitazione e altre delicatezze. Un delitto interpretato dai tuttologi da bar come “figlio della crisi”. Mi limito a copincollare qua sotto le parole deliberatamente morbose stampate su un quotidiano dell’epoca (se desiderate altri dettagli, c'è Google).

Del cadavere si sbarazza la sera, probabilmente con l’aiuto del suocero. Compie un’operazione atroce e incomprensibile: lo decapita. La testa finisce chiusa in un forno della pizzeria. La ritroverà la polizia il giorno successivo.

Ecco. Quella pizzeria era proprio la MIA pizzeria e la sola eco di quella macabra vicenda fu sufficiente a guastare alcuni tra i più bei ricordi della mia infanzia: i pomeriggi di gioco, le incomprensibili frasi in dialetto di mia zia, la pizza settimanale con mia madre, eccetera.

Poi, oh, per carità, con questo non intendo minimamente mettere sullo stesso piano il mio piccolo dramma con lo shock attraversato dalle persone coinvolte in prima persona nella faccenda; né ha senso che mi esibisca in giudizi o analisi. Anche perché subito dopo il primo botto mediatico, si è attivato il mio sistema immunitario mentale che, da protocollo, ha impedito ogni mio successivo contatto con la faccenda, “censurando” in automatico notiziari, giornali e social network.

La pizzeria dell'orrore.

Sono un tipo pieno di paturnie e tra le tante c’è quella di non riuscire a digerire i fatti di cronaca nera. Oddio, in generale - come la maggior parte delle persone, presumo - non mi riesce di gestire molto bene neanche il rapporto con la morte per cause naturali. Negli anni ho sviluppato, appunto, un vero e proprio protocollo ad hoc, che definisco di “evitamento totale” (o anche “protocollo S”, laddove la “S” può stare per “struzzo” o per “stronzo” a seconda della sensibilità di chi legge). Piano piano, con pazienza e dedizione, ho tentato (e sto ancora tentando) di educare amici e parenti a non tirare in ballo i mortacci in mia presenza. Anni fa avevo addirittura impedito a mio nonno di leggere i necrologi in santa pace, e Dio sa quanto sia importante per un anziano sorpassare i compaesani o i compagni di caserma nella gara della vita.

Non pratico i cimiteri da anni, mi presento raramente ai funerali e ho addirittura un giorno della settimana preferito per ricevere eventualmente le cattive notizie (il mercoledì, meglio se dal pomeriggio in avanti: segnatevelo), anche se fino ad oggi nessuno ha mai avuto il riguardo di tenerne conto. Cani.

Chiaramente la morte violenta o il delitto di provincia spingono al massimo questa mia ansia. Non ho molti problemi - per così dire - col crimine organizzato e metodico. Anzi, tutto il filone narrativo legato alla mala mi affascina. Gradisco la dimensione astratta degli horror, anche se gli zombi un po’ mi agitano per via della loro natura incontrollabile. I gialli li pratico poco, e nel caso preferisco quelli per ragazzi tipo Harry Potter. Ho letto gran parte dell’opera di Stephen King e digerisco serie e film tipo Mindhunter, True Detective, Il silenzio degli innocenti o Erased solo perché ambientati a parecchi chilometri di distanza dai dintorni di casa mia. La questione geografica resta fondamentale: se “delitto nella provincia americana” segna sette sulla mia scala della paura, “delitto nella provincia italiana” segna dieci.

Sia l'omicidio brutale e istintivo che quello seriale mosso da ragioni che mi sfuggono (o che scelgo di lasciar fuggire) mi terrorizzano sopra ogni cosa per la loro apparente mancanza di ordine e discriminazione. Quando non mi riesce di prendere sonno, fatta una certa, mi pare plausibile che chiunque tra me e le mie conoscenze potrebbe finire coinvolto in qualche fattaccio. Magari le persone che reputiamo più misurate non lo sono affatto. Magari - brrr: vedi a scrivere di notte - non siamo al sicuro nemmeno da noi stessi.

Insomma, per quanto mi riguarda, zero problemi con scazzottate e mutilazioni da katana in battaglia, ma non chiedetemi di aprire un giornale sulle pagine di Nera o di cercare in rete informazioni sul mostro di Firenze, sulla strage di Erba, sul delitto del Collatino o su quello di Cogne. Per assurdo, credo che mi farebbe meno paura incontrare un vampiro, piuttosto che un tizio convinto di essere un vampiro.

Poi, a voler razionalizzare, credo che sarebbe meglio evitare di ficcare il naso in certe robe, anche solo per non incoraggiarne la mercificazione, ché le peggio testate ci campano. Come sosteneva pertinentemente il compianto Giovanni Sartori, tecnicamente la cronaca nera non è informazione in senso stretto; non è un servizio necessario. Al massimo concorre a mantenere un certo tipo di avvenimenti nella gabbia rassicurante delle eccezioni che confermano la regola: se un delitto macabro fa notizia, vuol dire che grazie al cielo ancora non appartiene alla norma. E la cosa è tranquillizzante.

È anche vero che il macabro a livello narrativo innesca spesso un’attrazione sinistramente magnetica, ma per ansia scelgo di mantenerlo in una dimensione amorfa, di chiudergli la porta in faccia appena un secondo prima che prenda forma. Alla maniera di Truman Capote, che a un certo punto decise di sofisticare la propria vita attraverso la buona società e i cocktail party per scopare fuori di casa gli orrori dell’America di provincia (orrori che alla fine sono comunque entrati dalla finestra, ché ogni paura nasconde sempre una piccola ossessione), io, nel mio piccolo, tento di esorcizzare il male frequentando ambienti accoglienti, positivi. Guardo film e serie TV ambientate altrove, oppure cazzeggio su internet nell’illusione di praticare convitti digitali civilizzati e moderni (notare che sto su Facebook e scrivo per Outcast), lontani anni luce dalla provincia italiana più buia.

"Brigitte Bardot, Bardot!"

Eppure, nonostante tutti i miei sforzi, ogni volta che mi ritrovo in automobile a sfoltire la nebbia della Brianza, ripenso alla pizzeria davanti alla casa dei miei zii; a gente apparentemente normale capace di esplodere da un momento all’altro in atti indicibili. Atti così gravi da contaminare con i loro miasmi anche i ricordi d’infanzia di un ragazzino. Lo stesso ragazzino che oggi, arrivato alla soglia della mezza età, quasi non ha il coraggio di lanciare un giochino innocente e solare come Wonder Boy, per paura che tra alberi e fruttini si nasconda l’uomo nero.

Il 1986 riassunto in maniera arbitraria e incompleta: Alex Kidd in Miracle World, Arkanoid, Bubble Bobble, Castlevania, Dragon Quest, Ikari Warriors, Kid Icarus, The Legend of Zelda, Metroid, Out Run, Rampage, Salamander, Wonder Boy.

Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.

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