Fantasmi da Marte è il miglior film di DOOM possibile
Nel corso della mia via recente, mi è spesso capitato di ripensare alla Notte Horror di Italia Uno.
Notte Horror era un raccoglitore di film horror di seconda serata, un luogo umido e vischioso del palinsesto di Italia Uno in cui trovavano posto le cose che il pubblico voleva ardentemente vedere e che la prima serata non poteva mostrare.
Comodamente, alle undici di sera, venivano trasmessi capisaldi del cinema di genere, B-Movie inqualificabili e chicche varie, grazie al meraviglioso spirito libertario di Mediaset.
Hellraiser, Pet Sematary, Darkman, Il seme della follia, Nightmare, Dellamorte Dellamore... cose così, che adesso, con la costante rilettura del cinema che fu e che all’epoca la critica sonoramente bocciò, sono diventate dei capisaldi e in alcuni ambienti, anche quelli umidi e viscidi, dei veri e propri cult.
Ero troppo giovane per vivere l’epoca della prima Notte Horror; ero troppo giovane anche per restare sveglio fino alle undici, ad essere sincero, ma in un periodo questa volta non troppo remoto, lo sfavillante inizio di millennio, Italia Uno ripropose il suo contenitore, comodamente piazzato dopo il Festivalbar.
Ecco, quando la gente rimpiange l’estate ballata a ritmo di compilation rossa o blu, io ripenso alla Notte Horror.
Ad ognuno la sua nostalgia.
Fu grazie a Italia Uno che approcciai il genere. Di videocassette horror, a casa, non ne giravano molte, e all’epoca internet non era così veloce da permettere download. Probabilmente, non sapevo nemmeno come gestire la ricerca di una filmografia di genere. eMule era qualcosa di ancora avveniristico, per capirci, era tutto molto avventuroso.
Fatto sta che la Notte Horror fu la mia vera iniziazione al genere: H20 (aka Halloween 20 anni, dopo con un misconosciuto Josh Hartnett nei panni del figlio di Jamie Lee Curtis), Scream 3 (si, vidi prima il terzo, perché quello passava il convento), Il Corvo 3 (sigh), Il cacciatore delle tenebre (con Jon Bon Jovi nel ruolo dell’ammazzavampiri) e, soprattutto, Fantasmi da Marte.
Sarà stato il 2005, non masticavo nulla di post-modernismo, non conoscevo quanto sarebbe stato importante John Carpenter per me, non sapevo nemmeno chi fosse John Carpenter, nonostante Grosso guaio a Chinatown sia uno dei miei film preferiti, quello di cui mettevo su la cassetta quando restavo a casa da scuola perché malato, quello che riguardo fisso ogni volta che lo passa Mediaset il sabato pomeriggio alle due.
Quello di cui mi sono regalato il cofanetto lo scorso Natale.
La genesi di Fantasmi da Marte è da far risalire agli inizi del terzo millennio, quando la Hollywood bene era infognata nel mito della colonizzazione marziana e, come capita tutt’oggi, escono quasi in contemporanea film molto simili tra loro. Nello stesso anno avemmo Mission to Mars di De Palma e Red Planet con Val Kilmer. Ma Carpenter ci mette del suo.
La trama, in breve: corpo di polizia viene mandato a recuperare un pericoloso criminale in ridente cittadina mineraria in mezzo al nulla, la situazione inizia a puzzare quando ad accogliere i nostri ci sono solo cadaveri e quattro prigionieri in stato semi confusionale. A perpetrare il barbaro massacro sono stati gli stessi abitanti della città, dopo essere stati come “infettati” da un “qualcosa” che si è liberato dalle miniere e che si sposta seguendo il vento. Questo qualcosa, questa minacciosa entità sopita che attendeva di essere risvegliata nelle profondità di Marte, trasforma gli “infetti” in barbari punk autolesionisti senza il benché minimo spirito di autoconservazione, con tendenze cannibali ma organizzati in una pseudo società, con a capo il boss finale del film. Sbirri, super criminale da scortare e poveri reclusi casuali dovranno così unire le forze per sopravvivere.
Questo film aveva TUTTO quello che poteva affascinare uno spettatore di quattordici anni.
Tutto.
Era horror, come poteva essere horror un videogioco in cui il protagonista ha sempre saldamente in mano una grossa arma e un sacco di proiettili.
C’era qualcosa, nella semplicistica rappresentazione della colonizzazione marziana, che mi affascinava, nonostante all’epoca mi sfuggisse.
L’aria era irrespirabile, perché bastavano degli occhiali a mascherina (anche quelli, molto ‘00) per respirare?
E ancora, se sono su Marte, perché utilizzano ancora i treni? Ha davvero senso sviluppare un sistema ferroviario su Marte?
Facevo la tipica punta al cazzo e nonostante ciò ero più che intrattenuto, ero divertito, affascinato dalla trama, dal design dei “fantasmi”, dalla rappresentazione della violenza, dell’azione, cosicché sorvolavo con disarmante facilità sulle semplificazioni del caso.
All’oscuro della poetica carpenteriana, tutto questo mi appariva meravigliosamente nuovo.
Con un po’ di malizia e quindici anni di più sulle spalle, ho poi capito che Fantasmi da Marte non è altro che una versione riveduta e corretta di Distretto 13 - Le brigate della Morte, che a sua volta non era altro che un remake anni Settanta di Un dollaro d’onore.
E a tutto ciò arrivai solamente molto dopo, guardando la terza stagione di Banshee, che invece non è altro che una versione più brutale di Lo chiamavano Trinità. Ma questa è un altra storia.
Un western ambientato su Marte, stranamente una delle poche idee che, una volta sviscerata (o eviscerata, in questo caso sarebbe comunque corretto), invece di essere pessima o banale, è ancora affascinante ed evocativa. Scatena ancora quel brutale fomento adolescenziale e, a riguardarlo oggi, scorre ancora liscio, adagiato su una nuvola di rossa sospensione dell’incredulità.
Certo, bisogna sorvolare sulla completa assenza di fotografia, su un cast raffazzonato, su un Ice Cube al minimo delle sue capacità attoriali e su battute che sembrano scritte da un bambino di dodici anni.
DOOM arrivò sicuramente dopo.
Un giocatore di lungo corso direbbe che con DOOM Fantasmi da Marte ci capa poco, ma il mio primo DOOM è stato Doom 3. Il Doom sfigato, quello che non scrivi in caps-lock, quello survival horror, quello in cui, mentre parli a un computer, si libera uno spirito e i morti si rianimano.
E hanno gli elmetti, i giubbotti anti-proiettile e i mitra.
Il Doom survival horror più che sparatutto, in cui non puoi impugnare fucile e torcia nello stesso momento
Uno dei miei ricordi più nitidi, l’inizio del livello tre passi oltre la porta, blackout. E tu ad affannarti a cercare di inquadrare con la torcia quello che dovevi puntare con l’arma, scadere nella frenesia e iniziare a martellare zombie con la torcia.
Il panico.
Qualcuno con più conoscenze di psicologia di me potrebbe dire che la mia avversione al genere survival horror sia iniziata così.
Fantasmi da Marte, nei miei ricordi, è associato a Doom 3 molto di più di quella roba brutta con Karl Urban e il Dwayne Johnson che ancora accettava ruoli da cattivo, nonostante la tremenda sequenza in soggettiva e il design dei mostri e dell’ambientazione presi di peso da lì, in un tentativo manieristico di bissare il successo del film di Resident Evil.
E mi sembra addirittura che il pretesto dai richiami vagamente lovecraftiani sposi la filosofia di DOOM molto più di quella storia strana fatta di cromosomi modificati e superpotenziamento genetico che era l’origine del male del film del 2005.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Luigi e ai fantasmi, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.