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Max Payne è Bruce Willis. Punto | Racconti dall'ospizio

Max Payne è Bruce Willis. Punto | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Mi limiterei a quanto scritto nel titolo dell’articolo, non aggiungerei altro.

Ma (non) mi pagano per scrivere e quindi aggiungo.

Quando, nel 1988, dopo cinque rifiuti illustri, la Gordon Production assunse un attore da telefilm comico investigativo per l’adattamento di Nothing Last Forever, Joe probabilmente non si aspettava di aprire una “nuova via” dell’action made in USA. Al fianco degli action man reaganiani stile Chuck Norris e delle macchine da guerra inarrestabili, drammatiche (Silvester Stallone con Rambo) o spaccone (Schwarzenegger) che fossero, e ben lontano dalla algida perfezione di James Bond, arrivava l’eroe autolesionista.

John McClane si faceva male, anzi malissimo, passava il tempo a maledirsi e a darsi del cretino per i guai in cui si stava cacciando, ma un proiettile alla volta, di esplosione in esplosione, si faceva strada tra intere squadre di nemici sempre meglio equipaggiati ed addestrati di lui.

Era lontanissimo, come detto, dall’eroe one man arm”, privo di qualsiasi soggezione di fronte al pericolo, ma si metteva in situazioni che gli eroi hard boiled, fin troppo consci che le pallottole uccidono, stavano bene attenti ad evitare. Se la cavava per il rotto della cuffia, grazie a un mix di ingegno, abilità, disperazione e sfacciata fortuna, a cui neanche lui avrebbe mai creduto. Primo tra tutti ad essere conscio del fatto di essere un perdente, che imbrocca l’unica giornata sì (e ci sarebbe da ridire) in migliaia di giornate no.

Ancora più esplicito sarebbe stato il fratello perduto Joe (“Cornelius, ma se lo dici a qualcuno, ti uccido”) Hallenbeck che così si complimenta con sé stesso appena lo conosciamo:

Non piaci a nessuno, sei antipatico a tutti. Sei un fallito. Fai un bel sorriso, stronzo!
— Joe Hallenbeck (Bruce Willis): L’ultimo Boyscout - 1991

Esattamente dieci anni dopo, Sami Järvi, un filandese matto (come tutti i finlandesi, mi dicono i finlandesi stessi) indossa un impermeabile di pelle e una camicia che nella scala del pacchiano si colloca tra “giostraio” e “Felice Caccamo” e ci mette la faccia (e la fronte spaziosa come quella di zio Bruce) per dare vita al personaggio principale del gioco che aveva scritto sotto lo pseudonimo hard boiled di “Sam Lake”: Max Payne.

Il brutto trip mi aveva messo di pessimo umore, l’adrenalina mi pompava dolorosamente nelle vene.

Barcollando sul tetto in lamiera coperto di neve e ghiaccio, ero come un ninja, la forza scorreva in me.

Non prendevo in giro nessuno. Alla meglio, potevo essere Superman imbottito di kryptonite, pronto a volare giù dal lucernario.

Tutte le volte che rileggo questa citazione, ci trovo l’essenza del personaggio: in qualsiasi condizione capace di fare dell’ironia su di sé, in qualsiasi condizione intenzionato a combattere non perché lo voglia ma semplicemente perché non gli hanno dato nessuna alternativa.

La struttura narrativa delle sue avventure è stata sempre identica: vita banale da poliziotto troppo onesto per il suo stesso bene, casuale incontro con LA SFIGA, tutto crolla (in almeno un capitolo per ogni gioco, letteralmente) sulla sua testa, il mondo si rovescia e la legge diventa il suo primo problema, mentre un criminale diventa un insospettabile alleato, si individua un primo responsabile da eliminare per capire, un secondo da crivellare di proiettili per sopravvivere e, infine, il vero burattinaio, da imbottire di piombo con tutta la rabbia di chi ha solo in quel momento realizzato di essere stato calpestato come uno zerbino da un piede abituato a schiacciare persone.

In tre giochi quello, che cambiava era al limite la condizione psicologica iniziale, legata alla ben definita età del protagonista. Il primo Max si presenta giovane, ottimista neo-padre di famiglia, il secondo è un poliziotto vedovo con fiducia nelle sue capacità di restare vivo ma attratto solo da una femme fatale che sa sparare bene quanto lui, il terzo un rottame alcoolizzato che porta il distintivo solo perché è rimasto attaccato alla camicia.

Dopo di che, lo sviluppo era lo stesso e il finale, esauriti i caricatori, non è mai stato “felice”, solo “pacifico”. Di quella pace che ha valore solo se la paragoni alla guerra appena passata.

Per dissimulare questo canovaccio, secondo e terzo gioco distribuivano la narrazione tra presente e flashback, spezzandone la linearità, sebbene fin dal capostipite fossimo abituati, in perfetta tradizione “Hard Boiled”, a cominciare dall’epilogo.

Erano tutti morti. L’ultimo colpo fu come il punto esclamativo a chiusura di quello che era successo. Allentai la presa sul grilletto. Era tutto finito.

Erano tutti morti. L’amore uccide. L’amavo? C’era un’altra scelta?

E così, finii per diventare quello che volevano loro, un assassino. Un pagliaccio con la pistola, pagato per bucherellare qualcuno. Beh, era quello per cui avevano pagato e quello avevano ottenuto. Dite quel che volete di noi americani, ma il capitalismo lo capiamo bene. Quando compri un prodotto, ottieni ciò per cui hai pagato.

La narrazione ripetuta diventa parte organica di un gameplay ripetitivo: corri, salta in bullet-time, spara. Ancora, ancora, e ancora.

È la narrazione a reggere il gameplay, con le situazioni, con la recitazione sovrapposta ai faccioni pixellosi grazie all’idea riuscita di un fotoromanzo, così “vintage” e quindi così adatto, le battute sarcastiche, ironiche, filosofiche e rabbiose stampate su carta e recitate da ottime voci, tanto nell’originale inglese, quanto nella versione italiana.

È a tal punto conscio di quanto la sua ripetitività sia la sua anima, il videogioco Max Payne, che nella prima delle sue storie si permette di sbatterlo in faccia al personaggio Max Payne

La verità mi si dischiuse di fronte agli occhi: una luminosa luce verde spazzò via le bugie... Il mio intero passato era una sequenza frastagliata di immagini e di parole sospese nell’aria come palloncini... Ero in un romanzo illustrato... Per quanto assurdo, era la cosa più orrenda a cui potevo pensare.

La ripetizione di una storia ben scritta non annoia, diventa epica, il personaggio diventa eroe (anzi, data l’immortalità da “continue”: supereroe) e l’intero cast deve essere in grado di reggergli il gioco. E lo fa.
Se caratteristi validi per una battuta come i Fratelli Finito o Jack Lupino restano divertenti bersagli e l’amore della vita Mona Sax o l’ambigua spalla Raul Passos sono compagni di viaggio piacevoli, è con il doppio oscuro Vladimir “Mio carissimo amico” Lem che si realizza il più gradevole duetto.

Vladimir, comparsa con due battute in croce nel primo gioco, sarà grande co-protagonista del secondo, ammettendolo con una ultima battuta piena di rimpianto:

Max… mio… carissimo… amico… Dovevo essere io… l’eroe!

Che le cose siano andate come sono andate, che “Un uomo deve fare quello che deve fare” resterà per entrambi, e per il giocatore, una amara constatazione.

Chissà, forse è anche perché nel secondo capitolo abbiamo un finale su cui pesa la delusione di un destino che non poteva essere evitato, se il terzo capitolo è il più cinico dei Max Payne.

Max è un “avanzo di polizia” che ha abbandonato il distintivo per una più redditizia professione da cane da guardia dei ricchi; alcool e antidolorifici sono il suo pasto quotidiano e quando le cose peggiorano, lo fanno con una durezza inaudita.

Nessuno di coloro che doveva proteggere sopravvive, mentre nei meandri oscuri del Brasile viene a contatto con tutto quello che cerchiamo di illuderci sia solo fantasia romanzesca e leggenda metropolitana (spoiler: non lo è!): squadroni della morte, narcotrafficanti con mercenari a seguito in piena luce, traffico di organi umani sottratti a persone di cui nessuno denuncerà mai la scomparsa.

A tal punto si abbruttisce, che la sua già zoppicante “bellezza” viene completamente mutata: il mullet viene abbandonato per una più tattica rasatura a zero, che fa ancora di più risaltare le rughe dure della sua fronte.

Rendendolo incidentalmente di nuovo simile al Bruce Willis di quegli stessi anni e permettendo di nuovo al giocatore di caricare ogni pallottola virtuale del sentimento di rivalsa di un eroe “per esasperazione”, la cui identità è ormai scolpita.

Insomma, se torniamo all’inizio e torniamo al 1988, viene davvero da chiedersi cosa avrebbero pensato i responsabili del casting di Die Hard - Trappola di cristallo se gli avessero detto che, oltre a creare un nuovo modello di action cinematografico, avrebbero trasformato un eccentrico sviluppatore finlandese in un cinico, sarcastico e disincantato, eroe da videogame.

La verità era una verde fessura bruciante che mi attraversava il cervello... Infinite ripetizioni dell’atto di sparare, il tempo che rallentava per mostrarmi ogni singolo movimento. La paranoica sensazione che qualcuno stesse manovrando ogni mia mossa... Ero in un gioco per computer... Per quanto assurdo, era la cosa più orrenda a cui potevo pensare.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a The Irishman e al crimine, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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