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Racconti dall'ospizio #183: La prima generazione di Pokémon come fine dell’innocenza

Racconti dall'ospizio #183: La prima generazione di Pokémon come fine dell’innocenza

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

“Tutti i ragazzi devono lasciare casa, prima o poi. Lo dicono anche in TV”. È con queste parole, più o meno, che si apre la grande storia dei Pokémon, una saga che tutto sommato ha sempre rivendicato, pur nella leggerezza e nella sottile ironia dei suoi dialoghi, il suo ruolo di Bildungsroman. Una caratteristica di certo comune a molti JRPG, ma che in Pokémon, vuoi pure per la sua scrittura essenziale, era tipo una dichiarazione di intenti. Dopotutto, alla base dei mostri immaginati da Satoshi Tajiri, c’era proprio il senso di avventura delle gite fuori porta, della voglia di sentirsi più adulti e scoprire il mondo, nonché un modo per capitalizzare la sua passione per gli insetti e gli anime. Un connubio strano, che a conti fatti non solo ha funzionato, ma ha influenzato per sempre la storia dell’intrattenimento.

Il professor Oak e le sue importanti lezioni di vita, e Gary, che sarebbe stato un mio perfetto compagno di classe.

Nel 1999, quando Pokémon Rosso e Blu arrivarono in Italia, avevo quattordici anni e avevo appena cominciato il liceo. Wikipedia mi segnala il 5 ottobre come data d’uscita, e ha senso, perché la prima generazione di Pokémon, in cui rientrano anche l’anime e Pokémon Giallo (uscito l’anno dopo), ha di fatto accompagnato il mio inserimento in un mondo diverso, strano, quello dove, appunto, c’è un distacco netto dal contesto familiare e devi imparare a trovare da solo un compromesso. Arrivato al liceo, nelle prime settimane successe di tutto, per casini incredibili riguardo la sperimentazione linguistica e ricorsi vari per l’assegnazione delle classi. Mi ritrovai, dopo le prime due settimane, proiettato in un piano dell’esistenza completamente diverso da quello che avevo immaginato: ero arrivato al liceo pensando di trovarmi nella stessa classe del mio amico del cuore, per seguire un normale curriculum di liceo scientifico, e invece mi ero ritrovato in una classe sperimentale linguistica (che tutto sommato mi va bene) con un gruppo compatto che arrivava insieme dalle medie e che aveva già studiato tedesco (e questo è meno bene). Avrei potuto cambiare, è vero, ma, non so perché, mi venne la svolta fatalista e cominciai l’anno proprio prendendo il mio zaino e affrontandolo uscendo dalla mia comfort zone. Tempo due settimane e non sentii più il mio amico d’infanzia, feci ciao ciao a otto anni passati insieme.

Il delizioso Kanto in un’immagine in bianco e nero dell’epoca. Filtrata ammerda per fare l’upscaling.

Col senno di poi, tutto sommato, direi che è stata una scelta saggia in termini di risultati, eppure il percorso non fu esattamente semplice, soprattutto nei primi due anni e mezzo. Il vero problema è che il blocco che già si conosceva era compatto e apparteneva a una classe sociale ben più agiata della media (e della mia), proiettata in un futuro in cui, a prescindere dalle abilità acquisite, il potere d’acquisto garantiva possibilità quasi illimitate. Per carità, generalizzare è sempre sbagliato e, a conti fatti, diversi ragazzi di quella che all’inizio mi appariva un’unità indistinta sarebbero diventati miei amici. Cosa c’entrano i Pokémon, in tutto questo? Sono fondamentali, perché sono diventati il simbolo di quei due anni passati a cercare un posto in un ambiente nuovo, inizialmente come forma di isolamento protettivo e, perché no, fuga, altre volte come tratto distintivo o generatore di socialità. Ricordo perfettamente l’immagine di me che avevo comprato, poco dopo l’uscita del gioco, nell’edicola sotto scuola, una di quelle guide cartacee per recuperare tutti i Pokémon, e l’avevo portata in classe per leggerla nell’intervallo. Non avevo neanche il Game Boy con me, era giusto una lettura random. Cristallizzata nel mio cervello, c’è questa immagine fantastica di io che leggo mentre ascolto musica, seduto ciondolante al mio banco, mentre intorno a me c’è chi parla di epiche imprese e connivenza con i bulli di quartiere (perché c’era una fascinazione enorme per certe frange di grigia legalità nel regno della Napoli bene, in quel periodo). Per carità, letti in questo modo, sembrano anni terribili e, certo, non sono stati facilissimi, eppure questa non è una storia di bullismo e isolamento. Argomenti di convergenza, vuoi per necessità, vuoi per naturale integrazione, ce n’erano, e anzi, ricordo la curiosità degli altri compagni di classe un po’ meno vicini al “branco” per quei mostriciattoli colorati. I Pokémon prima, Magic poi, PES allo stadio finale di integrazione, hanno rappresentato uno dei terreni su cui costruire un immaginario comune in quel periodo e, anzi, per una parte di quella classe, sono stati anche un modo sereno per evitare di entrare in un tritacarne fatto di banconote da cinquecento euro appena stampate ed esibite come trofeo da bruciare in cocaina.

Tutto ebbe inizio così. In realtà, in Giapponelandia c’era pure Pokémon Verde, ma tant’è…

Tornando ai Pokémon, e alle intenzioni di Satoshi Tajiri, la prima generazione del gioco di Game Freak rappresentava anche un tentativo di creare un videogioco sociale non necessariamente multiplayer, legato a un’infanzia prettamente analogica. La divisione dei Pokémon nelle varie versioni del gioco non era solo un’intelligente mossa di marketing, ma anche il tentativo di mettere in comunione i giocatori, costringerli a interagire nel mondo reale, perché uno dei messaggi del gioco è, evidentemente, che senza le relazioni con gli altri non si può crescere. Per me, invece, le implicazioni sociali dei Pokémon non sono state quelle previste dall’autore, anche perché ero l’unico a possedere fisicamente il Game Boy. Eppure, la curiosità per quel gioco spinse me e una manciata di altri ragazzi a scoprire il fantastico mondo dell’emulazione, perché oramai viaggiare alla scoperta del Kanto era diventato un argomento di conversazione imprescindibile, quasi quanto il calcio o l’NBA. Anche se non ci scambiavamo i Pokémon fisicamente, i discorsi su come sfruttare i glitch per prendere Mew o come ottenere tutti i mostri facendo robe assurde con le ROM funzionavano lo stesso nel far stringere un legame, e a trovare noi stessi lontano da casa. Alla fine della prima generazione, vuoi anche per sovraesposizione all’anime, credo che Pokémon Giallo sia stato quello dei tre a cui ho giocato di più, maledicendo Pikachu per il suo essere assolutamente inutile nello scontro con Brock, ma apprezzando il suo rifiuto ad evolversi in quella roba oscena chiamata Raichu (tra l’altro, grandissimo momento struggente nell’anime, un po’ come quando Ash prova ad abbandonarlo e invece… ).

A conti fatti, i discorsi sulla superiorità di Charmander sugli altri Pokémon iniziali delle versioni lisce e la mia perversione per Psyduck fino alla gloriosa scalata verso Indigo Plateau rappresentano immagini chiarissime della mia adolescenza, eppure, nonostante la mia genuina passione per la creazione di Tajiri, non ho mai più affrontato per intero un’altra avventura alla ricerca dei mostri, ad eccezione di un tour fotografico con Pokémon Snap. Immagino che il motivo stia proprio nel mio aver legato indissolubilmente l’immaginario di Game Freak a quel periodo di formazione, che aveva cambiato me e il contesto in cui vivevo. Una volta che la classe, dopo essere stata decimata per abbandoni e drammi vari durante il terzo anno, aveva trovato un suo equilibrio fatto di odio sopito, rispetto necessario e complicità acquisita, si erano aperte anche le porte delle grandi sfide multiplayer durante le mattinate in cui “non si entrava”. Quanto al gruppetto dei Pokémon, ci spostammo in blocco sui CRPG, Magic e la grande stagione del lancio di dadi furioso. Perché si cresce, ma mai del tutto. 

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai Pokémon, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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