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C’è qualcosa che sbava dietro la finestra

C’è qualcosa che sbava dietro la finestra

1996. Immagina di trovarti nell’atrio di una gigantesca villa in stile palladiano. Di fronte si erge un’ampia scalinata, ai lati una serie di porte chiuse. L’atrio è vuoto e silenzioso, ma attraverso quelle pareti senti palpitare la presenza di qualcosa che non riesci ancora a comprendere. Chissà cosa si nasconde dietro quelle porte chiuse. Qualunque cosa sia, speri solo che non riesca ad aprirle dall’interno…

Il sudore comincia a formarsi in perle sulla fronte, l’adrenalina viene messa in circolo e il cuore batte rapidamente. Controlli la tua Beretta: 12 colpi nel caricatore. Ti giri verso la porta a destra e il sordo rimbombo dei tuoi passi innesca un brivido lungo la colonna vertebrale. Sei solo tu, tranquillo. Giri la maniglia e la porta si spalanca nel buio mentre il flusso dei dati compone una nuova immagine. Sei nella stanza e, prima ancora di percepirne la planimetria, sobbalzi al rumore dello schianto di vetri in frantumi. Un’ombra nere atterra dalla cornice della finestra. Cerchi di scappare ma prima di renderti conto di quello che sta accadendo, un’altra finestra va in frantumi e un'altra ombra ti piomba addosso. Ringhiano, sbavano, sanguinano e con un balzo ti scagliano a terra… “Benvenuto al survival horror”.

È la prima volta che un videogioco mi spaventa così tanto. Non sono più un bambino, quei modelli sullo schermo sono davvero grezzi, ma non ho mai giocato a niente del genere prima. Sì, certo, c’era stato Alone in the Dar (a proposito, qui trovate un pezzo dedicato al post mortem del gioco), ma quello era quasi un fantasy; Resident Evil, invece, è un vero horror. Un incubo interattivo spietato e violento. Di più, è il primo “survival horror” - che all’inizio suonava come un’etichetta autocelebrativa inventata da Capcom; poi, dato il successo, è diventato un vero e proprio genere (ti dice niente “soulslike”?).

Le limitazioni stuzzicano l’ingegno e il compromesso indirizza a soluzioni creative. Shinji Mikami, game director della serie fino al IV capitolo, voleva creare un clone di Doom, ma con i fantasmi. Le competenze del suo team e i limiti di rendering e memoria della PlayStation non lo permettevano. Ecco quindi schermate pre-renderizzate con inquadrature dai tagli arditi (per avere più poligoni da usare per i personaggi) e porte in prima persona che si aprono sul buio ogni volta che la console deve caricare una nuova stanza (2MB di RAM, giovani!). Semplicemente geniale.

L’entrata in scena dei dobermann nel primo Resident Evil è un jump scare magistrale, ricordato ancora da chi ai tempi lo visse in prima persona (no, non c’era YouTube a spoilerare la qualsiasi), ma è con l’introduzione del licker nella stazione di polizia di Resident Evil 2 che il team di Mikami crea un pezzo di storia dell’intrattenimento interattivo, analizzato e studiato da critici e appassionati, tanto di videogiochi quanto di cinema (e ha pure dato vita a qualche meme: “window licker” è traducibile in italiano come “ritardato”).

Alla regia c’è nientepopodimeno che Hideki Kamiya.

29 settembre 1998. Seduto in quel caffè, a Raccoon City, non ci puoi stare: le strade pullulano di zombi. E allora che fai? Zigzagando per le strade infestate ti rifugi all’interno della stazione di polizia. Pensi di essere al sicuro ma un pericolo ben maggiore ti attende: qualcosa di mai visto prima, un cocktail sconvolgente a base di uomo, rana, lucertola e un’immancabile spruzzata di virus-T.

In questo momento ti trovi nella reception. Nella hall hai appena avuto la possibilità di “redigere il tuo rapporto” (salvare la partita). La macchina da presa è rivolta verso l’ingresso da cui è entrato il tuo personaggio. Gran parte della stanza è chiaramente visibile, ma l’inquadratura non ti mostra ciò che il personaggio sta osservando. Muovendoti verso la telecamera, passi alla nuova inquadratura, che rivela l’altra metà della stanza, parzialmente nascosta da un séparé. La tensione scema, eri pronto a far fuoco, ma la minaccia non è imminente. Per procedere, però, sei costretto ad avanzare verso il séparé: la tensione sale di nuovo. Scopri che lì dietro si nasconde un breve corridoio, che termina con una finestra sul fondo e una porta a destra. Mentre avanzi, per un istante, quasi impercettibile, scorgi una sagoma indefinita che scivola lungo il vetro della finestra. Il movimento è così repentino che non riesci a creartene un’immagine mentale soddisfacente. Ora, però, sai che là fuori qualcosa si muove. Per fortuna qui sei al riparo. Vero?!

Il colpo di genio è nell’inquadratura successiva: attraversata la porta, la telecamera, posta all’esterno dell’edificio, mostra il tuo personaggio attraverso il telaio della finestra, come se questa fosse la soggettiva di un predatore che contempla il prossimo pasto. Avanzi con cautela e l’inquadratura seguente è sempre rivolta verso la porta da cui sei entrato, ma ora è all’interno dell’edificio. La camera indietreggia ancora di qualche metro mentre esplori il corridoio: solo un tavolo ribaltato e dei fogli sparsi. Un controcampo, finalmente, ti mostra cosa c’è in fondo a questo corridoio. Se provi a tornare indietro, l’inquadratura dall’esterno non c’è più. Chissà, forse te lo sei solo immaginato. Tiri un sospiro di sollievo, ti senti meglio. Dura poco. In sottofondo, il rumore di qualcosa che sgocciola. Magari qualcuno ha chiuso male il rubinetto... Appena giri l’angolo, seguendo la svolta del corridoio, ti aspetta un poliziotto. Decapitato, ahi! All’improvviso non hai più fretta di avanzare. Fai addirittura finta di interessarti al quadro elettrico, ma sai bene che le tue paure stanno per prendere forma. Avanti, fatti coraggio! La telecamera, sempre rivolta verso il tuo personaggio, indietreggia nel corridoio e riprende la scena dal pavimento. In primo piano c’è una pozza di sangue che gocciola dal soffitto (hai capito a cos’era dovuta la perdita!…) e, sulla destra, noti i detriti di una finestra in frantumi. Non ricordi di aver sentito lo schianto, però.

Per un attimo la mente torna alla vecchia dimora Spencer esplorata qualche anno prima. Ma quando avanzi, scopri che non si tratta di un cagnolino… Un breve filmato in CG, rapido alternarsi di campo e controcampo dal volto del personaggio a quello della creatura appesa al soffitto, ti consente di scorgere i dettagli di questa nuova mostruosità: assenza di pelle, cervello esposto e scabrosi movimenti di lingua. In preda al terrore, spari alla cieca, mancando il bersaglio che ora è acquattato sul pavimento. Avanza come un ragno, rapido e implacabile e, in men che non si dica, sei lì a far compagnia al tuo collega defunto. “You Died” dice lo schermo nero mentre cerchi di riprenderti dallo spavento.

Quando è successo a me, ero collegato al piccolo televisore della cucina, luci spente, cuffie in testa per non svegliare nessuno. Una mano si posa sulla spalla: “Cosa ci fai ancora alzato?!”. Il mio sistema nervoso autonomo prende il controllo: salto sulla sedia. “Ma ti sembra il modo di reagire. Va a letto, va…”. Difficile prendere sonno quando si è così eccitati. Ricarico il salvataggio, torno sulla scena del crimine e saluto il licker scaricandogli contro tutte le munizioni del mio fucile. Non erano necessarie, ma è meglio star sicuri… Mio padre scuote la testa e se ne va, non so se amareggiato, sicuramente un po’ deluso.

Il mio amore per la saga di Resident Evil rimarrà devoto e immutato fino al sesto capitolo. Amavo il cinema horror, ma qui c’era molto di più in ballo. Era una questione personale. Come fruitore di film e giochi avevo finalmente individuato uno dei problemi centrali di traduzione tra linguaggio cinematografico e videoludico: la dimensione temporale. La sequenza di introduzione del licker, infatti, avrebbe potuto funzionare a perfezione anche in un horror. All’interno del gioco, tuttavia, il montaggio della sequenza spettava a me. In qualsiasi momento avrei potuto decidere di tornare all’inquadratura precedente, ritardando così l’incontro con il mostro, dilatando la suspense. L’impatto, tuttavia, non risultava affatto diluito, anzi, quell’incontro inevitabile diventava ancora più ansiogeno. Il compito più arduo del game designer era stato riuscire a motivarmi a compiere una determinata serie di azioni nei tempi previsti, lasciandomi comunque l’illusione di agire liberamente, senza rovinarmi la sorpresa.

Proprio da questo scambio di informazioni tra autore e utente nasce il potenziale espressivo del gioco: quella piccola libertà di movimento delimitata dai rigidi confini stabiliti delle regole. Il processo di svelamento dell’informazione nascosta, parte del gioco come sfida, in un contesto inquietante, accompagnato alla gestione oculata di risorse scarse, aveva dato vita ad una nuova forma di intrattenimento videoludico: il survival horror.

Ci sono stati altri jump scare nella mia carriera di giocatore (P.T. su tutti), ma questi due episodi hanno avuto un impatto decisivo sulla mia formazione, ludica e professionale.

Nei successivi remake le due sequenze sono state completamente riviste, non tanto per esigenze tecniche (l’abbandono della telecamera fissa) o ludiche (sistema di movimento), quanto per il desiderio di generare nuova sorpresa nel giocatore, sovvertendo così le sue aspettative. Non c’è nulla di più deludente di uno spavento telegrafato: se queste sequenze fossero state riprese pari pari, i giocatori di lunga data non sarebbero stati in grado di provare lo stesso shock. Rimandando invece la presentazione, sia dei dobermann a Villa Spencer, sia del licker alla stazione di Raccoon City, gli autori sono riusciti a spiazzare le aspettative dei fan, dimostrando, ancora una volta, di aver capito una delle regole fondamentali dell’intrattenimento, ancor più valida per il genere horror: aspettati l’inaspettato.

A proposito, non senti anche tu il rumore di qualcosa che sgocciola? Magari non hai chiuso bene il rubinetto della doccia. Perché non vai a dare una controllata?

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