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Salt and Sanctuary tirato giù un po' alla carlona

Salt and Sanctuary tirato giù un po' alla carlona

Al PAX del 2011, James Silva decide di lanciarsi in una proposta di matrimonio rivolta a Michelle Juett, l’altra metà di Ska Studios, e per la dichiarazione infila a tradimento una custscene acconcia nella demo di Charlie Murder.

Cinque anni dopo, nel 2016, la coppia partorisce il brutale Salt and Sanctuary, mix tra un metroidvania e un soulslike pubblicato originariamente per PayStation 4, successivamente declinato per PC, Mac, PlayStation Vita (R.I.P.) e sbarcato infine su Switch all’inizio dello scorso agosto.

Sempre nel 2016, io stavo ancora in sbornia brutta da Bloodborne e mi apprestavo a mettere le mani su Dark Souls III, ché dopo tanto procrastinare per diffidenza, avevo infine compreso il fascino dei soulslike. Tuttavia, nella pratica, ero rimasto una sega e mi sentivo decisamente già abbastanza impicciato dai giochi di Hidetaka Miyazaki per spruzzare sangue anche su quello dei coniugi Silva.

Salt and Sanctuary l’ho recuperato solo qualche settimana fa, grazie a un codice per la versione Switch pervenuto ad Outcast. Mi ci sono messo con voglia, ma dopo qualche ora di gioco non ho potuto fare a meno di riflettere su una roba che col valore del titolo di Ska Studios c’entra poco o nulla. Semmai, c’entra con la sua natura: ho sempre letto i soulslike come la versione tridimensionale e imbastardita - nel senso che sono proprio più bastardi - dei metroidvania, soprattutto per il gusto del world design totale globale. Conseguentemente (e del tutto a muzzo, mi rendo conto), l’idea di un soulslike direttamente in dueddì mi è arrivata come un cortocircuito.

È pur vero che, sul piano delle priorità, quello che definisce i souls non è tanto il level design, bensì la meccanica prova-muori-riprova-muori-riprova & recupera le anime, che è presente pari pari pure in Salt and Sanctuary.

Eppure, mi ha fatto strano: quanto è davvero rilevante lo spazio tridimensionale, per lubrificare una meccanica del genere? È davvero possibile fare senza? Il salto all’indietro verso le due dimensioni, che mescola ulteriormente le carte con i metroidvania, ha un senso, al di là delle agevolazioni di sviluppo? Onestamente, non ne ho idea. Ma visto che siamo in tempi di populismo, la butto sull’empirico e dico che, se lo chiedete a me, Salt and Sanctuary è sicuramente un buon gioco, ma non mi ha convinto fino in fondo.

Vero anche che tra le mura di Ska Studios lavorano solo due anime e, in questo senso, siamo di fronte a un mezzo miracolo. L’intero gioco è una dichiarazione d’amore al lavoro di Miyazaki sia per atmosfere che per world design (e una dichiarazione di guerra verso il giocatore, visto che non c’è la mappa).

Tutte le aree sono connesse tra loro in maniera efficiente, persino elegante, e se non fosse per qualche occasionale caduta di ritmo sparsa qua e là, non avrebbero nulla da invidiare ai metroidvania famosi o ai soulslike grossi. Mano a mano che l’utente le passa in rassegna, viene risucchiato da una mitologia interessante a tema dark fantasy, che si esprime sia attraverso il contesto, che per bocca di qualche personaggio non giocante (per quanto, non siamo al livello certosino di Bloodborne).

Anche l’apparato linguistico è inconfondibile: i boss hanno la loro brava introduzione, la barra rossa e tutto il repertorio di mosse e ammazzamenti, ché alla fine bisogna imparare gli schemi a memoria. Ci sono i santuari, come da titolo e tradizione, che fungono da base per gli spostamenti veloci, mentre al posto degli echi del sangue, o delle anime che dir si voglia, qui abbiamo a che fare col sale, che permette di far evolvere le abilità del nostro personaggio, ma tuttavia non rappresenta l’unica valuta del gioco.

Salt and Sanctuary parla la stessa lingua dei giochi firmati From Software.

E naturalmente c’è la componente ruolistica, basata su armi, abilità e su un sistema di classi che nel mio caso ha influenzato soprattutto il primo impatto con l’azione: da fan di Bloodborne, ho attaccato nei panni di un cacciatore, per poi tornare sui mie passi dopo qualche ora e ripartire come cavaliere. Molto meglio.

Le classi di partenza sono otto: cavaliere, mago, paladino, ladro, cuoco, chierico, mendicante e cacciatore, e nonostante la loro varietà non sono mi sono sembrate particolarmente vincolanti a livello di build, mentre l’evoluzione del personaggio viene gestita attraverso un sistema sferigrafico à la Final Fantasy X che, personalmente, ho trovato un po’ antipatico.

In generale, tutta la roba ruolistica l’ho patita meno rispetto ad altri titoli simili: vuoi per l’imbragatura platform, che tende a premiare la destrezza e l’abilità del giocatore almeno quanto numeri e combinazioni, vuoi per il mio approccio bello sciolto alla carlona, che mi ha spinto a preferire la componente “metroidvanica” del gioco, piuttosto che quella soulslike.

Il combat system si regge in equlibrio sulla stamina, e per fare bene bisogna lavorare sul tempismo, sulle parate, sulle schivate e sull’accesso agli attacchi cruenti. Tuttavia, per quanto non abbia lo scatto di un Alucard, il nostro omino se la cava bene e gira con meno impiccio rispetto ai tizi dei souls grossi, soprattutto dopo aver guadagnato qualche power-up.

Inoltre, e sembra un’ovvietà, in Salt and Sanctuary è possibile saltare. E se da una parte la meccanica di salto, in qualche modo, colma l’assenza di profondità spaziale rispetto ai titoli di From Software, dall’altra appiattisce un po’ il concept, posizionando l’esperienza in una zona di grigio.

Ho tenuto per ultime le considerazioni sul lato artistico perché - tolto il sound design - mi è parso l’aspetto più debole di tutto il gioco. Ripeto: ci hanno lavorato in due e OK, mezzo miracolo e tutto, ma proprio non mi è riuscito di entrare in sintonia con lo stile, i colori e le ambientazioni di Salt & Sanctuary. A tratti, e nonostante lo spessore, ho avuto la sensazione di smanettare con un prodotto semi-amatoriale. E per carità, meglio un gioco così che un’hipsterata insipida, ma dopo anni di grafiche indie “con due lire ma fighe”, faccio fatica a scendere a compromessi.

Lo stile grafico mi ha un po' buttato giù l'esperienza.

Detto questo, e gusti a parte, Salt & Sanctuary, pur nel suo essere estremamente derivativo, rappresenta ancora oggi l’unico “soulsvania” puro in circolazione, e se avete apprezzato i titoli di From Software, non posso che consigliarlo. Diversamente, se siete disposti a sbilanciarvi, sulla piazza sono presenti giochi affini decisamente più interessanti, a cominciare dall’ottimo Hollow Knight. Fate un po’ voi.

Ho giocato a Salt and Sanctuary su Switch - principalmente in modalità “docked” - grazie a un codice gentilmente fornito dagli sviluppatori. Rispetto alla primissima versione per PlayStation 4 recensita a suo tempo da Biagio, la localizzazione in italiano è stata sistemata e ora tutto funziona come si deve. Ricordo infine che questo articolo non fa parte della Cover Story “Ricordati che devi morire”, ma è come se.

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