Quella casetta piccolina in Canadà nel bosco: The Long Dark
Credo che sia cominciato tutto con Toto Cutugno e Minecraft.
Voglio andare a vivere in campagna è del 1995; il simulatore di fare cose a blocchettoni di Mojang del 2011. Prima di loro c’era stato il Waldo, OK, ma volete davvero dirmi che l’uomo della strada conosce Thoreau meglio di Salvatore da Fosdinovo? L’idea del ritorno alle origini, a una forma più semplice e analogica di esistenza, a una vita tattile più che visiva fatta di terra bagnata stretta tra le dita, pomodori che crescono felici, tramonti e silenzio è chiaramente, lo diceva anche Senofonte nell’Anabasi, tracciabile fino al pezzo del Salvatore nazionale, al quale anche Markus Persson ha dichiarato di essersi ispirato quando cominciò a lavorare a Minecraft.
Sto cazzeggiando perché la realtà è che non ho idea di quando sia successo di preciso che tutti i videogiochi del mondo e le loro zie hanno deciso che il modo migliore per rendere l’esperienza di gioco più immersiva fosse costringere i giocatori a raccogliere rametti e riempire borracce d’acqua per da un lato costruire baracche nelle quali passare la notte e non morire mangiati dai mostri, dall’altro tenere sempre sotto controllo una serie di conti alla rovescia legati a caratteristiche umane molto umane, la sete, la fame, il sonno. Vi ricordate le power fantasy, diventare un marine spaziale che spara in fazza ai demoni e non ha mai bisogno nemmeno di pisciare? Ecco, in DOOM non c’era il crafting, il che rende DOOM un gioco diverso da un buon 80% dei giochi che sono usciti negli ultimi anni. Ancora una volta, percentuali random per ridere e scherzare, ma è vero e innegabile che – e qui torno all’idea che Minecraft in un certo modo sia stato il primo, o quantomeno un apripista di qualche tipo – oggi è difficile trovare giochi che puntino tutto sull’immersione e che non implementino in qualche modo almeno qualcuno dei sistemi che siamo abituati ad associare alla sbatta della vita vera, più che ai fantasiosi viaggi di un videogiocatore.
Sembra che mi stia lamentando, in realtà sto constatando, e anzi mi piace questa spinta sempre più forte verso il survival puro, un genere, se genere vogliamo chiamarlo, che ormai, fatte salve alcune meritevoli eccezioni, sembra aver abbandonato il cinema per prendere casa in console, PC e altri ammennicoli. In quanto persona che non vede l’ora di poter dire CIAO alla civiltà per andare a vivere tra i monti coltivando rape e facendo amicizia con i daini, ho una forte fascinazione per qualsiasi gioco che mi forzi a diventare Robinson Crusoe, che sia su un’isola popolata da cose strane (Don’t Starve) o su un fiume costellato di isole popolate da cose strane (The Flame in the Flood) o sott’acqua, dove nuotano le cose strane (Subnautica). Ne ho provati tantissimi, in questi anni, di giochi che ricadono in qualche modo sotto la categoria “survival”: Sheltered e This War of Mine e Impact Winter e Ark e Conan Exiles e [quello che avreste citato voi] e il resto di una lunga lista che vi potete ricostruire senza fatica googlando “survival video game”.
Tutta questa introduzione per dire cosa? Che The Long Dark sta per arrivare anche in versione retail e non c’è nessuna ragione al mondo per il quale non dovreste giocarlo, se ancora non l’avete fatto. È il miglior gioco survival in circolazione, o il più originale, o il più innovativo? Non direi, no: c’è tutto quello che vi aspettate, le barrette con fame sete sonno, il ciclo giorno/notte, le provviste da raccogliere, i falò da accendere, le trappole per conigli e per lupi. C’è però qualcosa che a moltissimi altri giochini survival manca, che non è l’unico motivo per cui dovreste giocarci ma che è probabilmente all’origine di tutti questi motivi: la sensazione non di stare navigando per una mappa generata proceduralmente appiccicando pezzi di codice e sovraimprimendo alcune regole per provare a darle un senso, ma di trovarsi in un posto vero, per quanto trasfigurato e orribile e freddissimo. O anche: in The Long Dark la mappa è quella, è fissa, non cambia mai, è possibile impararla a memoria, ogni luogo è sempre lì e ha il suo senso e il suo scopo; The Long Dark è disegnato a mano, assomiglia a un posto dove gli autori hanno vissuto e che hanno ricostruito per il nostro divertimento, non al risultato di un algoritmo. È da qui, credo, che bisogna partire.
Che cos’è TLD? La parte tecnica: è una roba della sopravvivenza e della solitudine, in prima persona, ambientata in un Canada post-apocalittico dove tutto è diventato la copertina di un disco black metal, o le parti interessanti di The Revenant. Fa freddo, in The Long Dark, è inverno sempre tranne quando diventa ANCORA PIÙ INVERNO; è un gioco ostile ambientato in un posto ostile, un survival game in cui la parte che riguarda la sopravvivenza alle condizioni di merda è preponderante, sicuramente più importante del costruirsi un rifugio o coltivare patate o addomesticare animaletti. Giorno dopo giorno, la vita fa schifo e le uniche cose da fare sono tirare avanti fino al giorno dopo sperando che faccia un po’ meno schifo e, con un po’ di pazienza, esplorare, addentrarsi nella tempesta, nella speranza di scoprire… qualcosa, qualsiasi cosa, fosse anche solo un altro tetto sotto il quale nascondersi in attesa che passi la buriana.
Il che significa che The Long Dark è il survival game meno esoterico e bizzarro che ci sia in circolazione, perché a cosa servono fantasmi e spettri per farmi urlare di rimorsi nell’oscurità, quando bastano una tempesta di neve o un lupo affamato a costringere il giocatore a tornare di corsa in casa, chiudersi la porta alle spalle, accendere il fuoco e tremare di paura e freddo sognando le Bahamas? È un gioco di piccole vittorie, di minuscole scoperte; che non solo ti spinge a cercare un riparo dagli elementi, ma rende attivamente difficile l’atto di abbandonarlo in cerca di [qualcosa], perché fuori dalla porta FA TUTTO SCHIFO. Davvero: graficamente non è nulla di eccezionale, tutto poligonale e spigoloso e, sì, anche vecchio, ma The Long Dark sopperisce a tutto questo giocando con i suoni, le luci e i colori; il rifugio dove ho abbandonato il mio ultimo personaggio, che poverino è ancora lì in attesa e mi perdonerà ma giocare a Grim and Frostbitten Kingdoms Simulator ad agosto non aiuta l’immersione, è una casa a due piani, con una stufa, un forno, persino un patio da cui guardare i campi stando al riparo dai morsi del freddo.
Ne ho avute molte di case nei videogiochi, dai tempi in cui in Baldur’s Gate II potevi fartene una tutta tua, ma nessuna che fosse “casa” tanto quanto quel rudere: perché la prima volta che l'ho avvistata (intuita) in mezzo alla tempesta, ci sono arrivato strisciando sulle ginocchia, affamato, assetato e mezzo nudo, e la scoperta della sua sola presenza in mezzo a quel campo, annunciata da qualche filare e da una strada in lontananza, tutto messo lì apposta, quindi, per aiutarmi a trovarla, fu un momento di gioia e di trionfo alla faccia dei cubettoni e dei poligoni zozzi. Non solo perché avevo vinto la mia corsa contro le barrette dell’energia che rimpiccioliscono in continuazione (che è un trionfo videoludico, una vittoria contro il sistema), ma perché durante quel viaggio, che un giorno vi racconterò, The Long Dark mi ha incoraggiato a vivere davvero tra quelle foreste e quei campi abbandonati, a guardarmi in giro, a costruirmi punti di riferimento e una geografia locale; a fare attenzione ad ogni dettaglio, perché nel mondo di The Long Dark, i dettagli sono pochi e scoprirne uno può significare la differenza tra la vita e ricominciare la partita con un altro personaggio.
Direte «Sì, OK, ma questo lo fanno tutti i giochi survival». Vero, infatti ne sto facendo una questione di esecuzione più che di idee, e di dedizione totale al mondo di gioco, e credo che nulla illustri meglio questo fatto del modo in cui è implementato il ciclo giorno/notte. La notte in The Long Dark è UNA MERDA, è una notte vera, buia come il buco del culo di Satana, persino in casa, persino quando siete al sicuro, provate a girare per casa e a salire le scale e a trovare il vostro letto senza accendere una (preziosissima, ovviamente) lampada/torcia/fiammifero: le prime volte andrete a sbattere, vi perderete, vi sentirete scemi perché vi ritroverete a vagare nel nero più nero in un luogo che dovreste conoscere come le vostre tasche (che molti altri giochi VI FAREBBERO conoscere come le vostre tasche, accendendo una lucina, usando un po’ di luce ambientale soffusa, non intrusiva ma senza dubbio artificiale). O anche: mi è capitato di morire sulle scale di casa, perché sono tornato stravolto dopo una notte di caccia e tutto il cibo era al piano di sopra.
Mi rendo conto di stare vagando in mille direzioni senza troppo criterio, come fa The Long Dark, d’altra parte; è un gioco che parla di un posto dove il clima non è un granché, lo riempie di sistemi con i quali pitoccare e lascia assoluta libertà al giocatore sull’ordine nel quale affrontarli, e persino SE affrontarli: la mia prima esperienza fu con una tizia che trovò la sua miniera d’oro in una capanna vicino a un lago, e passò qualche mese a pescare pesce freddo, piazzare trappole per conigli e spendere metà della giornata chiusa in casa, seduta su una sedia mezza rotta, a fissare il vento che fischiava là fuori. Il suo erede si fece una corsa verso quella stessa casa, recuperò tutte le cose utili non inchiodate al terreno e si mise in viaggio, carico di provviste, per scoprire cosa ci fosse dall’altro lato di un sistema di caverne. È estremamente coerente con se stesso, anche: ovunque si vada, le regole sono le stesse, la roba a disposizione è la stessa, la mappa di questa fetta di Canada è disegnata perché abbia un senso come luogo geografico e non come collezione di situazioni videoludiche da esplorare più o meno in ordine. Non esiste progressione di difficoltà o complessità, è un gioco che si può potenzialmente esaurire all'interno di una singola area. Ancora una volta, tutte cose che si possono dire di parecchi altri giochi survival, ma realizzate con un disinteresse supremo per il giocatore e le sue necessità; è un sandbox, a modo suo – armi, munizioni, provviste e animali cambiano posizione tra una partita e l’altra, giusto per rimescolare un po’ le carte, ma la randomicità (esiste?) finisce lì – ma permeato da questa costante sensazione che tutto quanto esisterebbe anche senza la nostra presenza. La sensazione che a The Long Dark non freghi un cazzo di noi, in sostanza, che è probabilmente il modo migliore per generare inquietudine nel giocatore, che viene preso e gettato in mezzo alla neve, privo di agganci, ancore di salvezza, persino interazioni con altri esseri umani.
Poi sì, l’atto stesso di giocarci, la parte "gioco" del gioco, non è sempre bella o realizzata con la stessa cura dedicata all’atmosfera (in mancanza di termini migliori). The Long Dark è lento, pesante, ponderoso, impreciso e capriccioso nei rari momenti di “azione”, incasinato il giusto quando si tratta di pitoccare con l’inventario, e la sua dedizione al realismo è tale che, per dirne una, il mio esploratore di nome Ano aveva un bellissimo tavolo da lavoro, sul quale creare trappole, proiettili e altri triccheballacche, e il tavolo era in cantina, e la cantina era buia, e per lavorare ai triccheballacche serviva portarsi giù la lanterna e una scorta di benzina, perché se la lanterna si spegne mentre sei a metà di un’operazione di CRAFTING ti ritrovi all’improvviso al buio, al freddo, con un lavoro fatto a metà e una fame da lupi. In sostanza è uno SBATTA, un gioco di trionfi incrementali e minuscoli miglioramenti alla tua condizione di sopravvissuto, in un contesto nel quale nessuno dovrebbe poter sopravvivere. Al servizio dell’atmosfera, appunto, il che non significa che sia necessariamente agile o divertente; ma ancora una volta, la volta che vi capiterà di perdervi in una tempesta di neve senza un’idea di dove sia il rifugio più vicino, capirete che è solo giusto che a The Long Dark non freghi nulla di voi e della vostra botta di endorfine. Come dice il creatore e director (possiamo cominciare a dire “regista” anche per i videogiochi?) Raphael van Lierop, «I’m Canadian. This game is Canadian. Deal with it».
Un’ultima considerazione: ci sarebbe, in questa festa di geloni e voglia di cioccolata calda, anche una modalità “storia”, che dovrebbe poi funzionare anche da semi-tutorial, introducendo gradualmente concetti e nuove sfide e provando a dare una struttura narrativa all’atto di sopravvivere. Saranno cinque episodi, per ora ne sono usciti due, il terzo arriva a dicembre. Avendo giocato ai primi due, posso felicemente dire che si vive anche senza, e che il vero cuore di The Long Dark sono le microesperienze, le avventure personali, le corse folli inseguiti dai lupi, i falò faticosamente accesi al riparo di uno spuntone di roccia mentre fuori Abbath e Burzum fanno a gara di rutti. Insomma, carina l’idea delle storielle episodiche, ma il motivo per cui giocare a The Long Dark è un altro, è più una roba tipo questa:
o anche, se siete fortunati, questa:
Ho giocato a The Long Dark su una copia per PlayStation 4, acquistata con i miei sudati risparmi, per un numero di ore superiore a 1 e inferiore a 100. Ho cominciato a livello facile perché sono scarso, poi ho alzato la difficoltà e ho iniziato a morire. Nessun disco black metal è stato ferito o sfruttato durante le mie ore di gioco. The Long Dark è disponibile da più di un anno in versione scaricabile su PC, PlayStation 4 e Xbox One, ma oggi esce anche in edizione fisica. Come al solito, se acquistate il gioco (o qualsiasi altra cosa) su Amazon passando dal seguente link, una piccola percentuale di quello che spendete andrà a noi, senza alcun sovrapprezzo per voi. Se volete procedere su Amazon UK, puntate qui. Se preferite Amazon Italia, non so cosa dirvi, dato che non sembra esserci (o comunque non c'era quando ho scritto questo paragrafo).