Warren Spector e le trappole della narrazione interattiva
Un mese dopo il suo intervento al Reboot Develop Blue 2019, Warren Spector si è presentato alla Nordic Game Conference per parlare teoricamente d'altro, anche se ci sono state inevitabilmente delle sovrapposizioni. Se a Dubrovnik il punto di vista era soprattutto quello della produzione, della "missione", del trovare i propri obiettivi e di come inseguirli, a Malmö ha affrontato un discorso più legato alla narrazione nei videogiochi, che però, essendo storicamente fondamentale nei suoi lavori, ha finito per farlo tornare a battere come un martello sugli stessi concetti. Giusto così, in fondo. Il suo discorso, comunque, è partito da lontano, dal sottolineare che sì, anche in questa era di multiplayer e battle royale, la narrazione è importante nel medium, fosse anche solo perché i videogiochi ti permettono di affrontarla in maniera unica.
Inoltre, ha sottolineato, narrare è qualcosa che facciamo da sempre, da quando viveamo nelle grotte. Leggiamo narrativa da secoli, guardiamo narrativa al cinema, anche, da secoli (ormai possiamo tecnicamente dirlo al plurale) e giochiamo alla narrativa da decenni. Quindi, insomma, perché no? E la verità, spiega Spector, è che anche chi ritiene che la narrazione nei videogiochi non serva (secondo Eugene Jarvis, creatore di Defender e Robotron 2084, più storia aggiungi, più gameplay levi), anche chi ritiene di non utilizzarla (Sid Meier, paparino di Civilization), in realtà fa narrazione coi suoi giochi, senza rendersene conto. Perché, del resto, si possono raccontare storie in modi molto diversi e si possono commettere errori molto diversi.
La prima trappola in cui si rischia di cadere è quella di pensare che sia necessario appoggiarsi a una struttura narrativa tradizionale. L'abbiamo sentito dire mille volte, no? Il viaggio dell'eroe. Più in generale, la classica struttura a tre atti, che ovviamente è semplice utilizzare se scegli di raccontare una storia attraverso una progressione lineare, in cui il gameplay è un apostrofo rosa fra una cutscene e l'altra. È un approccio, quello che Spector definisce da montagne russe, che funziona, perché il designer sa costantemente quello che farà il giocatore, in ogni momento, e può quindi raccontare una storia spettacolare, curata in ogni dettaglio. E lo stesso Spector ha lavorato su giochi simili, per esempio ai tempi di Wing Commander, ma, secondo lui, bisogna utilizzare strutture più "giocose", che si abbeverino alla fonte del medium e non siano disponibili in altre forme d'intrattenimento.
Ne identifica cinque:
ci sono i giochi che non raccontano una storia in maniera ovvia, i cui sviluppatori sostengono di non farlo, ma con i quali, in realtà, nasce una storia diversa ad ogni partita, basata strettamente su quel che fa il giocatore, ed è forse la struttura più "giocosa" (Tetris, FIFA);
nei sandbox, il giocatore crea una storia in senso più tradizionale, inseguendo degli obiettivi in maniera libera, aperta, spesso non prevista dal game designer, come era per esempio il caso di The Sim, in cui, raccontava Will Wright, c'era gente che metteva in piedi storie di abuso matrimoniale o dipendenza da droga (The Sims, Minecraft);
il classico sviluppo del racconto ad albero, con scelte ramificate che, puntualizza Spector, molti pensano essere una novità recente ma esistono dagli anni Settanta, coi librogame. Sono spesso molto interessanti per le scelte che ti permettono di fare ma quello che sono, sostanzialmente, è un incrocio di cinque, sei, dieci sceneggiature di stampo cinematografico ed è tutto super guidato, si vede esattamente quello che vuole il designer (Detroit: Become Human, The Walking Dead);
infine, c'è il modello ibrido fra rollercoaster e sandbox, il preferito da Spector, in cui il giocatore controlla la storia nei dettagli, negli avvenimenti minuto per minuto, ma il designer ha il pieno controllo della narrazione globale. «I miei giochi», dice Spector, «sono in realtà molto lineari», perché l'inizio, la fine e i punti chiave del racconto sono definiti da lui, ma il giocatore può creare il suo racconto con le proprie azioni nei sandbox punteggiati dai momenti rollercoaster e ne vengono fuori storie incredibili, splendide per chi gioca, insignificanti per gli amici che se le sentono raccontare, «Un po' come quando provi a raccontare a un amico la tua campagna di Dungeons & Dragons.» (Deus Ex, Thief, Prey);
infine, c'è il modello procedurale, che è interessantissimo ma ben lungi dall'essere stato sviluppato, realizzato, "risolto" in maniera netta (Facade).
Sono tutti modelli molto validi, dice Spector, ma soprattutto sono modelli unici del videogioco.
La seconda trappola è quella del prendere troppo in prestito da altri medium, magari limitandosi a fare solo quello, e soprattutto del prendere in prestito le cose sbagliate. Va bene pescare elementi da altrove, è normale, lo fa qualsiasi forma d'arte, lo faceva il cinema all'inizio, quando era teatralissimo per messa in scena e recitazione, ma poi vennero sviluppate tecniche proprie di quella forma espressiva. Registi come Griffith, Renoir, Eisenstein, Wells portarono avanti il cinema grazie al montaggio e crearono un linguaggio proprio. Gli sviluppatori di videogiochi possono e devono fare lo stesso. Il che, di nuovo, non significa che non si possano utilizzare tecniche proprie del cinema, come per esempio fanno i film interattivi, o che non si possa imparare da quelle tecniche, ovviamente, ma quello è un discorso diverso. Proprio sul montaggio continua a insistere Spector, dicendo che a suo parere, nei videogiochi, non dovrebbe essere usato mai, o quasi mai, di sicuro non nella maggior parte dei generi, perché spezza completamente l'immersione. Poi ci possono essere eccezioni specifiche in cui funziona, ma il rischio è sempre quello di ritrovarsi con un gimmick che "estrae" dal videogioco, dall'interazione, perché nega il linguaggio del medium, esattamente come accade quando viene girato un film interamente in piano sequenza o in prima persona. Nei videogiochi, non serve il montaggio, perché tutte le parti che la narrazione cinematografica salterebbe vengono riempite, vissute, portate avanti dai giocatori.
Ma ci sono altre differenze, fra cinema e videogioco, per esempio nel ritmo e nella caratterizzazione. Una struttura standard del racconto cinematografico prevede un primo atto che si prende i suoi tempi e introduce il racconto, i personaggi, con calma, appoggiandosi sulla fiducia dello spettatore, disposto a guardarsi mezz'ora in cui, per così dire, non succede nulla. Ma in un videogioco bisogna coinvolgere dal primo istante, sparando subito l'azione. In un film, il secondo atto è quello che accelera e fa esplodere l'azione, ma dura un'ora; in un videogioco, il secondo atto dura quattro o otto ore, quando non quaranta o ottanta («Per lo più di brodo allungato, se siamo sinceri.»), e il ritmo rallenta per forza di cose. Sul terzo atto, invece, le similitudini sono più nette, il videogioco accelera col crescendo conclusivo più o meno come il cinema.
E poi c'è, appunto, la caratterizzazione: nel cinema, si tende a ragionare sui singoli momenti fichissimi e unici, sull'inquadratura à la John Woo con l'eroe che piroetta sparando mentre le colombe prendono il volo. Ma in un videogioco, una scena del genere la vedi ripetuta centomila volte ed è bellissima le prime... tre o quattro? Poi diventa routine, quando non proprio fastidiosa. Un videogioco si basa sui loop, sulle ripetizioni, e il suo momento magico è l'azione "normale" ripetuta in contesti diversi.
La terza trappola è quella di pensare alla storia solo come ciò che viene mostrato su schermo, quindi il pretesto che dà vita all'azione, gli ostacoli posti davanti a protagonista e giocatore. Ma un designer, secondo Spector, dovrebbe ragionare a livello tematico, chiedersi di cosa voglia parlare, proporre un tema attraverso il sottotesto. «Se non hai nulla da dire, non stare nemmeno a raccontarla, una storia». Ma, allo stesso tempo, non bisogna imporre messaggi in maniera diretta, piuttosto porre questioni, fare domande, spingere i giocatori a interrogarsi sui temi proposti attraverso il gameplay, fare in modo che siano loro a darsi delle risposte. E poco importa se i giocatori colgono il sottotesto o no, se capiscono dove tu vuoi arrivare, perché può anche essere tutto inconscio. Così come non ha alcuna importanza rendere chiaro il tuo pensiero sulle questioni: per un giocatore, non è importante quale sia il finale giusto di Deus Ex secondo Warren Spector, conta solo quale sia il finale giusto secondo lui.
La quarta trappola? Fraintendere la natura del medium. Le forme espressive lineari sono interpretative, immaginative, ma solo i videogiochi sono interattivi. Quando guardi un film, l'interazione si limita a immaginare ciò che non viene mostrato, magari a interrogarsi su come si risolverà un mistero e a provare a interpretare il messaggio espresso. Quando leggi un libro, la componente immaginativa prende il sopravvento. I fumetti già mescolano di più le carte, perché sei tu lettore a gestire il ritmo del racconto, prendendone in mano il montaggio quando riempi gli spazi fra una vignetta e l'altra. Ma i videogiochi richiedono tutto: immaginazione, interpretazione, interazione, ed è una cosa unica, che va sfruttata. Le storie sono da sempre una combinazione di parola, immagine, suono e spazio, ma i videogiochi aggiungono scelta, pianificazione ed esecuzione.
«Abbiamo più strumenti a disposizione di qualsiasi altro medium e dobbiamo sfruttarli. È un obbligo morale e artistico.»
Farsi prendere dal desiderio di raccontare la propria storia è la quinta trappola: bisogna permettere al giocatore di raccontare la propria. E per spiegarsi, Spector fa il solito esempio, ricordando le sue campagne a Dungeons & Dragons, affrontate quando Bruce Sterling, nientemeno, gli faceva da dungeon master, e il modo in cui davano vita a un racconto che apparteneva a tutti, giocatori e DM (o game designer, se si applica il discorso ai videogiochi), perché tutti contribuivano a scriverlo.
È il concetto di "autorialità condivisa" che Spector e i suoi pupilli, gente come Harvey Smith e Doug Church, porta avanti da ormai tanto tempo. Secondo Warren, il modello migliore per farlo è ovviamente quello scelto da lui, del gioco lineare punteggiato da tanti sandbox, in cui i designer creano un contesto narrativo, anzi, uno scheletro narrativo, su cui i giocatori posano la carne, sfruttando i sistemi e le meccaniche messi a disposizione. Sistemi che si basano su scelte e conseguenze logiche, che rendano l'azione dei giocatori pianificabile, con reazioni spesso anche impreviste dai designer, come nel caso delle bombe "adesive" di Deus Ex, che la gente si mise a utilizzare come piattaforme per scalare le pareti.
Lo diceva già Orson Scott Card nel 1981: i giochi sono un processo di collaborazione. Dare libertà al giocatore è una vittoria, costringerlo all'interno di limiti non necessari è una sconfitta. Il trionfo arriva quando nessuno, fra creatore e giocatore, è l'unico autore del racconto.
Questo non significa che si debba fare per forza come dice Spector, ovviamente e l’ha ribadito nella sua chiusura alla platea di sviluppatori:
«Se volete emulare gli altri medium, fate pure. Non decido mica io. Ho le mie idee e le spingo, ma non posso certamente costringere nessuno e, anzi, sono felice che esistano altre interpretazioni, giochi che ho adorato anche se non li avrei mai creati in quella maniera. Però, secondo me, è importante puntare sulle caratteristiche uniche del medium.»
«I videogiochi, oggi, sono la nuova forma evolutiva della narrazione. Siamo nel bel mezzo dello sviluppo di un nuovo medium, lo stiamo facendo crescere noi. Quanto spesso accade? Forse una volta per secolo? È fantastico, siamo fortunatissimi e dobbiamo approfittarne. Secondo me, il tratto distintivo del medium è l'autorialità condivisa, ma non devo avere per forza ragione. Voi trovate il vostro, se pensate che sia un altro, ma continuiamo a spingere in questa direzione, sfruttiamo l'interazione per trasformare tutti in autori.»