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In Design Hero sei lo Schiavo di Boris che sogna la scrivania di Don Draper

In Design Hero sei lo Schiavo di Boris che sogna la scrivania di Don Draper

Non pratico molto le visual novel - o qualunque cosa rientri vagamente nella definizione - ma sono sufficientemente pigro e molle da apprezzarne la struttura. Amo moltissimo, invece, Mad Men e Boris. Ho gradito Il diavolo veste Prada e Ugly Betty, e da quando Netflix me li ha portati in casa, ho preso l’abitudine di abboccare ai peggio dorama da serva, tipo Atelier.

Per queste (e altre) ragioni, mi sono trovato piuttosto in sintonia con Design Hero, in uscita oggi per PC e Mac. Il gioco in questione prende tutta la roba che ho elencato poco sopra e la infila in una struttura narrativa e interattiva molto, molto casual che - per amor del cielo - non sarà lo stato dell’arte, eppure mi è parsa sufficientemente sfiziosa per ingannarci il tempo di quando in quando. Chessò, magari in ufficio.

Ufficio, tra l’altro, eventualmente simile a quello dello studio messicano Akinaba, con base a San Pedro Garza García, che ha curato lo sviluppo del gioco. O addirittura a quello della (fittizia) agenzia newyorkese di comunicazione e pubblicità, la Jagger&Jones, dove il giovane - o la giovane: la scelta è soltanto vostra - protagonista di Design Hero bussa per imbarcarsi nel più classico dei tirocini da schiavo.

Nonostante il gioco faccia di tutto per suggerire una qualche prossimità con la serie Ace Attorney, siamo di fronte a qualcosa di molto più semplice. Design Hero è una visual novel piuttosto classica; un raccontino di intrattenimento a bivi, innocuo ma non per questo disprezzabile, ambientato in una versione acqua e sapone del mondo della pubblicità, dove trovano spazio tutti i cliché da “office comedy drama” (definizione che mi sono appena inventato).

L’esperienza inizia con la personalizzazione dell’avatar di turno attraverso un editor decisamente asciutto. Le opzioni non sono molte ma, personalmente, l’idea di poter entrare in gioco dopo quattro mosse mi sta benissimo, visto che odio pasticciare con i menù. Tanto più che i look a disposizione non sono male.

Una volta in azienda, ci tocca affinare le nostre competenze (all’inizio scarse), per riuscire a farci notare da una coppia di eccentrici superiori: Angie Jones, una rampante workaholic, e Trevor Jagger, guru del settore un po’ hipster e dai modi imperscrutabili. Inoltre, è fondamentale imparare a collaborare con i nostri colleghi copywriter e art director: Yu Watts, Ronnie Taylor e Ruby Wyman, oltre che con la project manager Samantha Richards.

MUTO! DEVI STARE MUTO!

Diversamente, se decidiamo di battere la fiacca e passare tutto il tempo a giocare a League of Titans (sic.) o di rifiutare direttamente il colloquio con la Jagger&Jones, andremo incontro a dei finali decisamente meno felici.

Fin dall’inizio, oltre che col nostro staff, abbiamo a che fare con i clienti: star della musica, madri bizzose, pezzi grossi della ristorazione e quant’altro, ciascuno con le proprie richieste ed esigenze. Il nostro compito è quello di studiare delle campagne di comunicazione ad hoc.

Ovviamente, Design Hero non è un’esperienza simulativa: dopo una breve introduzione teorica alle basi del mestiere, le campagne sono tutte piuttosto simili tra loro. Il gioco è diviso per capitoli (sfiziosissimo il menù di selezione à la Netflix, tra l’altro), e ciascun capitolo – spalmato a sua volta lungo diverse giornate – comporta fasi di briefing, raccolta di dati, studio delle grafiche, redazione di claim e altre cose del genere alla Mad Men. Ovviamente, a livello di meccaniche, questi task sono stati reinterpretati per andare incontro all’utenza e trasformati in una serie di minigiochi logici: per azzeccare gli incastri giusti, è sufficiente prestare attenzione alle esigenze dei clienti e imparare a leggere tra le righe. Niente di troppo originale o complesso; a volte mi sono trovato in difficoltà giusto nell’interpretare qualche segno, ma magari sono scemo io.

Design Hero è anche a prova di distratti: in qualsiasi momento, è possibile ripassare i punti salienti della campagna di turno attraverso uno smartphone. Il dispositivo in questione funge anche da hub, e consente di accedere alle mini-biografie dei personaggi e di fare acquisti online su un succedaneo di Amazon, oltre che di salvare o modificare l’aspetto del nostro avatar.

Scansate, Bezos.

A questo proposito, va detto che il sistema di personalizzazione, pur essendo altamente inclusivo (possiamo attribuire al nostro alter ego una sessualità fluida o affrontare l’esperienza da una sedia a rotelle), mostra il fianco a qualche problema. In qualsiasi momento è possibile modificare il nostro look, OK, ma per farlo è necessario rielaborare il personaggio dalle basi. È pur vero che bastano pochi secondi, ma il fatto che sia possibile persino intervenire sul gender a gioco iniziato così, senza senso, mina un po’ la credibilità di tutte quelle situazioni sociali che rappresentano l’essenza dell’esperienza.

Sì, perché le meccaniche di cui sopra, nella loro semplicità, forniscono soprattutto il pretesto per chiacchierare con i colleghi, ficcare il naso nelle loro vite e stringere amicizie o alleanze.

Al termine di una campagna, scatta l'uscita tra colleghi.

Pur essendo tutti degli stereotipi di genere, i personaggi in ballo fanno la loro: c’è la collega un po’ materna, la designer punkettona e dall’apparenza un po’ scontrosa, la lolita filo-giapponese e il “rookie of the year” tanto talentuoso quanto vanesio. Anche i clienti non escono troppo dalle righe ma, al netto di qualche scivolata nella macchietta, capita di imbattersi in situazioni interessanti (una trama in particolare rimanda direttamente alla serie di Matthew Weiner).

Anche i dialoghi, contestualmente al genere, fanno una discreta figura e, tra un pettegolezzo e l’altro, riescono persino a far emergere certe grane del mondo del lavoro, come la competizione tossica, la depressione, i mancati pagamenti, i furti di proprietà intellettuale, eccetera.

Smoke Gets in Your Eyes.

Artisticamente, la scelta di sfiorare il tratto manga senza calcare troppo la mano permette a Design Hero di schivare quell’effetto da spaghetti-manga anni Novanta, e nel complesso paga. Nonostante scenari e personaggi siano sempre quelli, il gioco è delizioso da guardare e la regia riesce a evidenziare i punti di forza e contemporaneamente a nascondere la scarsa varietà. Pure le musichine son simpatiche: certo, non mi metterei a fischiettarle per strada, ma non ho mai nemmeno sentito l’esigenza di levarle dalle balle, ecco.

Poi, chiaro, se siete alla ricerca di un po’ più di ciccia o di un gioco veramente alla Ace Attorney, vi consiglio decisamente di guardare altrove. Tuttavia, come esperienza assolutamente supercasual, breve (il gioco si esaurisce in poche ore ma è comunque rigiocabile in via dei finali multipli e dei punteggi dei minigame), da tenere di sottofondo e a cui dedicare qualche minuto di tanto in tanto, Design Hero potrebbe fare al caso vostro.

Nonostante delle sensazioni tutto sommato positive, mi tocca segnalare che la mia esperienza con Design Hero - praticata su un MacBook Pro attraverso il sistema operativo Mojave, grazie a un codice Steam ricevuto da Akinaba - è stata afflitta da bug di salvataggio irreversibili che mi hanno costretto a ricominciare il gioco dall’inizio per ben tre volte, impedendomi tra l’altro di raggiungere il finale “pieno”. A questo proposito abbiamo contattato gli sviluppatori, i quali ci hanno fatto sapere di essere già al lavoro su una patch, e che detti problemi saranno risolti col prossimo update di Steam.

Update del 7/11/2018: pare che ora i bug siano stati risolti.

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