Outcazzari

Ho visto Maradona, e innamorato son!

Ho visto Maradona, e innamorato son!

O mamma mamma mamma
O mamma mamma mamma
Sai, perché, mi batte il corazon?
Ho visto Maradona, ho visto Maradona
Eh, mamma’, innamorato son
— Davide Mancini

Ho già abbondantemente sbandierato la mia disattenzione verso lo sport praticato, malamente compensata da una franca curiosità nei confronti di quello raccontato, non importa se attraverso documentari, biografie, eccetera. Per questa ragione, durante l’ultimo Festival del film di Locarno mi è rincresciuto un sacco aver bucato la proiezione di Diego Maradona, terzo documentario del cineasta inglese Asif Kapadia dopo Senna, del 2010, e Amy, che gli ha pure fruttato l’Oscar nel 2016.

Per fortuna, grazie a Nexo Digital, il film arriva oggi nelle sale italiane e ci resterà fino a mercoledì, dopo essere passato fuori concorso dal Festival di Cannes ed essere pure stato opzionato da HBO, che lo trasmetterà a partire dal prossimo ottobre sulla sua piattaforma on demand, e su quelle partner.

Asif Kapadia all'ultimo Festival di Locarno. Il regista proviene dalla fiction e continua a frequentarla, tipo che nel 2017 ha pure diretto alcuni episodi di Mindhunter.

Ho avuto la possibilità di guardare Diego Maradona in anteprima qualche giorno fa, e al di là del piacere un po’ bizzarro di incrociare su grande schermo volti dello sport e del giornalismo degli anni Ottanta, e momenti di calcio entrati nell’immaginario collettivo persino di gente come me, che il calcio non lo segue, ho apprezzato moltissimo lo stile narrativo di Kapadia, così come ho trovato azzeccata la scelta di spingere su Napoli, città sulla quale Maradona ha avuto (ha?) un ascendente semi-divino.

All’origine dell’operazione c’è il recupero di un corposo archivio contenente materiale inedito sul campione, parte del quale proveniente da un precedente progetto documentaristico mai andato in porto, ma fortemente voluto dal manager storico di Maradona, Jorge Cyterszpiler (morto suicida nel 2017), che all’epoca commissionò centinaia di ore di ripresa al suo cameraman privato. Partendo da questo tesoretto, Kapadia e il responsabile del montaggio, Chris King, hanno passato in rassegna oltre cinquecento ore di materiale, in alcuni casi talmente vecchio che, per accedervi, è stato necessario recuperare vari scassoni su eBay.

La full immersion ha messo i due davanti alle dimensioni sportiva e intima di Maradona, e ora della fine è saltata fuori una bussola che questa dichiarazione del preparatore atletico Fernando Signorini riassume alla perfezione:

Diego può fare tutto, può arrivare sul tetto del mondo, Maradona è la maschera che si è costruito per resistere alle pressioni. Gliel’ho detto: posso lavorare sul primo, ma il secondo è un problema. E lui mi ha risposto: sì, ma senza Maradona, io non sarei mai uscito da Villa Fiorito.
— Fernando Signorini

Passando in rassegna il decennio 1984-1994, ossia a partire dal trasferimento dell’atleta dal Barcelona al Napoli, e più o meno fino al Mondiale americano, Kapadia tenta di separare il mito dall’uomo, arrendendosi di fronte al fatto che, da un certo momento in avanti, il secondo deve aver preso il sopravvento sul primo. Per la pressione, l’esaltazione e le dipendenze, stando alla costruzione proposta, ma più di tutto per la carica emotiva di una città come Napoli. Un città che, in un mescolamento di sacro e pagano ben più antico di Maradona, ha trasfigurato il calciatore argentino in un dio, finendo col sopraffarlo.

Maradona a Napoli nel 1984.

Quello, diciamo, antropologico è soltanto uno dei sottotesti che emergono dal lavoro di Kapadia. Il cineasta riesce ad adoperare l’oggetto della sua inchiesta per allargare gli orizzonti sui problemi che affliggevano l’Italia di quegli anni, a partire dalla criminalità organizzata. Dalla ricostruzione del rapporto tra il clan camorristico Giuliano e Maradona, emerge una dimensione ricattatoria basata sulla dipendenza da cocaina del calciatore. Dimensione che, nell’economia del film, finisce per diventare la metafora di un male capace di tenere in ostaggio l’intera comunità partenopea.

Poi c’è il razzismo, quello violentissimo delle tifoserie e quello più strisciante della stampa sportiva italiana degli anni Ottanta, pronta a perdonare l’avanzata di un squadra come il Napoli e di un outsider come Maradona, ma soltanto entro certi limiti. Non sorprende, alla luce delle testimonianze raccolte, quel bipolarismo tra “città più bella d’Italia” e città stato che, invece, con l’Italia non vuole avere nulla a che fare, esasperata da tutto il razzismo e le rotture di cazzo subite.

Questa tensione strappò durante la semifinale tra Italia e Argentina nel Mondiale del 1990, scriteriatamente disputata al San Paolo. Al di là del clima incandescente che precedette l’incontro, e dei tifosi napoletani accusati di parteggiare per Diego, l’Argentina finì per eliminare gli azzurri dal mondiale ospitato in casa loro. In via di questo peccato mortale, la stampa smise di celebrare Maradona e prese a raccontarlo come un diavolo.

Si può ben dire che, a livello drammaturgico, quello di Maradona è un percorso di ascesa e caduta da manuale, che negli anni è stato raccontato in un sacco di modi e da un sacco di gente, prima al presente e poi al passato. Nel 2008 persino Emir Kusturica ci ha messo mano, con un esito che francamente ho trovato un po’ incasinato. Ho decisamente preferito il lavoro di Kapadia, con la sua scelta di farsi da parte, per dare il massimo risalto alle immagini d’archivio e alla voce di chi è stato, o è, vicino al campione.

Il risultato è un film ben raccontato e sorprendentemente asciutto, al netto delle oltre due ore di durata. Se proprio proprio, boh, ha quei due o tre momenti di lirismo che tradiscono un taglio non proprio distaccato. Resta che è riuscito a levarmi l’acidità di stomaco procurata dalla recente indigestione di biopic.

Ho visto Diego Maradona in anteprima grazie a una proiezione stampa alla quale siamo stati gentilmente invitati. Ricordo ancora una volta che il film sarà nelle sale da oggi fino a mercoledì.

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