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We don't need another hero

We don't need another hero

Perché quando parliamo di sport del futuro l’immaginario va quasi sempre a sport irrealizzabili, atti a mettere a repentaglio la vita dei partecipanti e mai a un’evoluzione di quelle discipline già presenti, dove invece il business impone calendari e regolamenti che puntano solamente a aumentarne numeri e statistiche salvaguardando e mettendo sempre più al centro l’immagine del singolo atleta?

In quest’era di social media ci troviamo sempre più a idolatrare i Personaggi, a evidenziarne un gesto atletico, parlare delle loro storie individuali, di esseri umani che vengono sempre più dipinti come supereroi, mai invece si è alla ricerca di quello che lo sport dovrebbe raccontare, ovvero la competizione e i risultati in quanto tali. Allora a questo punto ci vengono incontro le nostre più fervide fantasie, ovvero quella che può essere considerata la caduta di un dio che viene messo alla prova al costo della propria vita, portando il livello di adrenalina oltre ogni livello mai conosciuto.

Space Jam è l’esempio perfetto di un personaggio reale che riesce ad accettare l’impossibile.

Negli ultimi cinquant’anni abbiamo avuto una serie di opere che hanno raccontato storie “sportive” al limite dell’assurdo, dove il nocciolo della questione era proprio il portare oltre al limite i protagonisti.

Che fossero videogiochi, film o fumetti, l’importante era veder primeggiare qualcuno a dispetto degli altri a qualsiasi costo, addirittura abbiamo visto tutti i personaggi Nintendo sfidarsi ai confini dell’inverosimile in una serie di titoli come Mario Kart, arrivando a emuli che addirittura cercavano di essere ancora più irriverenti dell’originale, prendendo ad esempio un titolo come Crash Team Racing.

Voialtri direte, “eh ma sono personaggi carucci, non farebbero male a una mosca” e invece no, velati da quell’aura tutta pucci pucci, i personaggi di questi giochi se le danno di sacrosanta ragione, con una violenza inaudita. Anche in una serie come F-Zero la nostra astronave, se non guidata con la giusta discrezione, esploderà senza alcuna pietà. Per non parlare di estremizzazioni come Carmageddon o Twisted Metal, dove ormai la concezione di “motorsport” si andava totalmente a perdere, divertendosi nella ricerca di quell’iperviolenza che nessuno si sognerebbe mai di compiere.

Mario Kart, ovvero il Death Race di Nintendo.

Ma prendiamo un altro esempio (passando dal cinema) e guardiamo un film come Mad Max - Oltre la sfera del tuono: qui il nostro eroe deve riscattare la propria vita in una lotta tra gladiatori nel cosiddetto “Thunderdome”, una banalissima gabbia d’acciaio sferica, alla faccia dello sport futuristico in cui la tecnologia dovrebbe farla da padrona. Lì rivediamo proprio riprendere un’antica tradizione perduta dai tempi degli antichi romani, uno “sport” che serviva a tenere buono il popolino dell’epoca e che forse lo stesso George Miller (regista e sceneggiatore della pellicola) ha voluto rispolverare per ricordare la brutalità intrinseca nell’essere umano, nonostante l’ambientazione di un futuro, sebbene post apocalittico, come se il reset del pianeta e della società avesse risvegliato quell’istinto primordiale di sopravvivenza e sadismo.

Tra i vari elementi di discussione che hanno sempre reso il film piuttosto divisivo, una delle cose più riuscite è la canzone di Tina Turner (qui nel film interprete di Aunty Entity, la carismatica governante di Bartertown) che ne fa da theme song, intitolata We Don't Need Another Hero (Thunderdome) e come proprio il testo parli della sopravvivenza, di quel desiderio di libertà che viene negata da questa distopia, tanto per sottolineare quanto la speranza in qualcosa di meglio sia sempre il tema centrale di quest’opera, nonostante una cattiveria che imperversa per quel mondo. Questo però non dev’essere raggiunto grazie a un singolo individuo a cui ispirarsi (l’eroe in questione), ma riuscendo a superare tutta questa brutalità da soli per lasciarsi tutto alle spalle, per dimenticarsi qualcosa di così oppressivo e sgradevole che fino a quel momento aveva scandito la vita.

Possiamo prendere in considerazioni pure altri stilemi, quello del “last man standing”, con pellicole come Death Race, Hunger Game o Rollerball dove per l’ennesima volta la vita umana è solo una scusa con cui intrattenersi, ma alla fine il risultato non cambia. La soddisfazione del pubblico si realizza sempre tramite il fallimento altrui.

Ave, o Tina Turner!

Perciò, tirando le somme, cosa possiamo dire?

A quanto pare l’immaginazione del futuro e della società e del suo modo d’intrattenersi appartengono sempre a una distopia iperbolica in cui si vede sempre gente perdere la vita per il pubblico ludibrio, forse in modo da esorcizzare un presente che vede la società diventare sempre più protettiva, cercando una risposta a un improbabile alternativa per un futuro che nessuno si augura possa mai accadere.

Però alla fine tutto questo, benché in maniera esagerata, non si discosta molto da quello che i vari media utilizzano come narrativa sugli atleti del giorno d’oggi, o su come gran parte del pubblico recepisca e digerisca il nuovo modo di comunicarne le gesta. Non è raro infatti imbattersi in commenti sui social, sotto soprattutto ad articoli specializzati, di gente che augura o auspica il fallimento dei protagonisti delle vicende di cronaca. In un certo senso, la soddisfazione dell’utente medio nel vedere una persona che dedica la propria vita a un obiettivo per poi non raggiungerlo è paragonabile a tutti quei videogiochi e film citati prima e del perché quando dobbiamo immaginarci uno sport in un futuro distopico finisce sempre tutto a schifio. O tutto questo è solo frutto della mia immaginazione?

Questo articolo fa parte della Cover Story “Sport mostruosamente proibiti”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

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